BATTAGLIONI DELLA VITA, BATTAGLIONI DELLA MORTE (di Fulvio grimaldi)

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Non è da come nasci, ma da come muori che si capisce di che popolo sei (Alce Nero, 1980)

Non si può far morire di fame e di sete una persona.
Così, nel gennaio-febbraio 2009, mentre a Gaza veniva liquidata una
popolazione a forza di fame, sete e un’apocalisse di guerra, il premier
Berlusconi e, all’unisono, tutta la banda di paese. Così, su Eluana
Englaro, in coma da 17 anni, caso paradigmatico del sadismo
clerical-capitalista del XXI secolo nei confronti della vita, il signor
Ratzinger, prelati assortiti, ma tutti vibranti di sacro furore vitale
(ma non era meglio il paradiso?), teodem di fureria e un buon 40% di
cittadini sodomofili che amano farsi dettare nascita, malattia,
sofferenza, connubi, coiti, generazione, morte, da un truce vegliardo
casto e Hitlerjunge mai pentito. Trattasi di creare, a
propria immagine e somiglianza (non bastava il disastro combinato
nell’Eden?), una zombie: una ragazza morta 17 anni fa e ridotta dalla
perversione etica cristiana a fagotto inerte e informe, non deve morire
di fame e di sete. Mica è un terrorista di tre anni di Gaza. Mica stava
nel mucchio di scolaretti assembrati sul piazzale per il cambio di
turno e che andava disintegrato con i missili per la gravissima colpa
di alimentare la continuità di un popolo di troppo. Uno tsunami di
fervori e anatemi contro la morte di una morta come indecente riparo al
silenzio e alla complicità per la morte dei vivi.

Potenze
necrogene e necrocrate da quando esistono, per lo stupro fisico e il
dopostupro economico dell’Iraq, prima, e poi di Gaza, sono state
acclamate come modelli di statologia per il 21° secolo dalle classi
dirigenti di tutto il mondo. In perfetta sintonia, già armati dallo
spunto dell’11 settembre, in Italia hanno scatenato il delirio della
sicurezza. Come si promuove la psicosi e quindi il diktat della
sicurezza? Carburandolo ovviamente con quel culto della morte che,
scientificamente, va da staminali e aborti ai roghi dei senza dimora,
dalle fucilazioni, fuori e dentro servizio, di importuni, sospetti, o
spaventati, allo sfondamento del torace di incappati in pattuglie
libidinose, dalla soppressione di spinellari e irregolari vari in
carcere, ai ragazzotti perbene che giustiziano chi gli nega una
sigaretta, dai quartetti del li
ceo che spezzano una coetanea per
farsela, ai crani spaccati di capannelli eversivi per loro stessa
natura, dalle donne ammazzate a pietrate, senza neanche essere sauditi,
agli stermini d’appartamento. Dicono che Israele avrebbe risposto ai
razzi di latta di Hamas, legittimi quanto inadeguati contro un
occupante belligerante, sorvolando leggiadri sul fatto che fu Israele,
il 4 novembre 2008, ad cancellare con missili la tregua e sei
palestinesi. Per la cosca dirigente italiana i razzi Kassam, sono lo
stupro fatto da un rumeno, o il pestaggio di un compagno di scuola
diffuso su YouTube. Ai razzi di chi dovrebbe starsene buono mentre se
ne liquida la presenza sulla Terra si risponde con il rapporto di 100 a
1 (13 vittime israeliane, 1360, li per lì, quelle palestinesi), dando
una lezione di modernità tecnologica e morale agli autori del 10 a 1
delle Fosse Ardeatine.

In Italia è bastato uno stupro per
trasformare chi dovrebbe starsene buono a casa sua a morire di fame,
epidemie, guerre imperialiste e criptoimperialiste in elemento
criminale collettivo, determinato a disintegrare la nostra civiltà.
Dopo la sospensione dell’assalto di dicembre 2008-gennaio 2009, è
piovuto qualche altro razzo sui coloni di Sderot. Il legittimo,
democraticamente eletto governo della Palestina (ricordiamoci che, nel
2006, Hamas aveva vinto le elezioni generali non solo a Gaza), che
sempre ha rivendicato il proprio diritto alla difesa, ha smentito e
documentato che quei razzi fossero della Resistenza. Il falso ha
permesso ai mostri di guerra israeliani di prolungare un po’ l’eccidio
e guadagnarsi qualche altro punto in vista delle elezioni del 10
febbraio 2009. Da noi, se non sono (e sono convinto che lo sono)
servizi occulti a fomentare reati particolarmente scioccanti e dunque
produttori di legiferazione repressiva, ci pensa la stampa a
trasformare episodi di routine in casus belli , meritevoli di un’
operazione Cast Lead alla Veltrusconi, magari chiamata,
ancora una volta (ci siamo abituati dalla Legge Reale) “Pacchetto
Sicurezza” . La tecnica è sempre quella: Torri Gemelle e “19
dirottatori arabi” introvabili da vivi e da morti. Ricordate i Libano?
Spedirono una pattuglia israeliana oltre le linee dei prontissimi
Hezbollah sapendo di sacrificarla. Due degli infiltrati in Libano
furono catturati. Israele e il mondo intero strepitarono di un
“sequestro” operato dai “terroristi” libanesi in terra d’Israele.
Niente scrupoli, né nella fregatura inflitta ai propri ignari soldati,
né nella menzogna. Né per i tremila sacrificati nelle Torri. Ma, poi,
che scrupoli volete che abbia chi titola un’operazione di genocidio e
infanticidio col titolo, Cast Lead, piombo fuso, tratto con cinismo satanico da una canzoncina ebraica per bambini?

Procedendo
nel “culto della vita” nostrano, aggiungiamo tre uccisi e mezzo sul
lavoro al giorno, i morti di fame e di freddo sulle panchine, quasi
diecimila stritolati dalle loro sicure auto sulle loro sicure strade,
la falcidie da inquinamento e farmaceutica, qualche migliaio di
fuggiaschi assetati, affamati e perseguitati, tutti per antichi e
attuali meriti coloniali, mandati a dissetarsi con l’acqua di mare e a
socializzare con i pesci, e non abbiamo finito. I giornali,
telegiornali, nani e ballerine del bordello vespaiolo, si sono gonfiati
di sollievo perché questo panorama di orrori, perfettamente istigati e
poi pompati dallo Zeitgeist di un capitalismo allucinato
dalla sua catastrofe, statisticamente in linea con i decenni e secoli
trascorsi, ma promosso a emergenza senza precedenti, consentiva di
rinchiudere nel lontano deposito dei ferrivecchi i pur diluiti e
adulterati servizi da Gaza. Anzi, da fuori dai confini di Gaza,
rigorosamente chiusi all’informazione dall’ unica democrazia del Medio Oriente. Non si era già fatto così con l’Iraq, prima masticato e sputato dalle puttane giornalistiche embedded,
poi svaporato con i suoi quisling-ganster, i suoi due milioni di
trucidati e 5 milioni di profughi, il totale sfascio civile, sociale,
culturale, insomma quel vero e proprio nazionicidio, nelle rosee
lontananze dei futuri libri di storia imperiale sulla democratizzazione
del paese violentato dal “mostro Saddam”?

Si tratta di culto
della morte. Dalle nostre parti lo travestiamo e sublimiamo in culto
della sicurezza e, quindi, della vita. E, porca miseria, crepi la
libertà, la dignità, il diritto, l’etica, la compassione, se questa
malvagio padre non vuole far manovrare Eluana da morta vivente, per la
maggior gloria di biopolitici e biopontefici che, se non avessero a
disposizione la nostra giugulare, saprebbero di disfarsi in polvere
alla prima luce del giorno. A Gaza, in Palestina, in Iraq, in
Afghanistan, in Somalia, a Haiti, si può invece far di tutto, mietere
vite come fossero fieno, affogare nel sangue mezzo mondo. Ma, ancora
una volta, lo si fa da ministri del culto della sicurezza e, dunque, da
apostoli del culto della vita.

Le due cose sono collegate. Una
istruisce e alimenta l’altra. Ma questo non traspare neanche da una
riga di tutti coloro che hanno scritto o parlato del degrado sociale,
dell’iperbole criminale a cui è giunta la congiuntura nazionale. Il
karma è costante, assordante, immutabile. Quando adolescenti bruciano
un disoccupato indiano, o un pistolero in divisa fa al tiro al
bersaglio su tifosi, un padrone ammazza e butta nel fosso il “suo”
immigrato, l’elegante giaculatoria dei sociopsicologi da osteria suona “disagio”,
“noia”, “sfascio famigliare”, “permissivismo” (a destra), “consumismo”,
“disgregazione urbana”, “abbandono periferico”, “ mancanza di luoghi di
aggregazione” (a sinistra).
Termine demodé è “alienazione”, pur
segnalato dal Che Guevara, da Pasolini e da alcuni neomarxisti
tedeschi, come strumento di dominio e sfruttamento al pari
dell’esproprio del propri lavoro. Ma “alienazione” è la parola.
Alienazione è quando qualcosa ti fa rovesciare nel tuo contrario.
Quando qualcuno inietta in Jekill un Dr. Hyde. Solo che, diversamente
da quanto ti vorrebbe attribuire il determinismo razzista dei genetisti
Usa, tradotto in vulgata del senso comune, quel Hyde non è tutta fatica
tua. Te lo allevano dentro.

Il discorso sarebbe lungo. Ma
partiamo da un punto avanzato. Si comincia per gioco: videogiochi, film
e teleserie, con più ammazzati o pestati che fotogrammi, ti insegnano
come divertirti manovrando pupazzetti e macchinari, il meglio della
nostra civiltà tecnologica bianca, giudaico-cristiana, per squartare
più “terroristi”, vecchiette, o devianti possibili. Più fai pulp,
più fai punti. L’educazione sentimentale è quella. E poi dici “il
bullismo”. Nel successivo si passa a fare quello che non si voleva
fosse fatto al cadavere mesmerico di Eluana: si chiudono interi popoli
in un recinto e li si ammorbidiscono ben bene negandogli cibo, acqua
potabile, medicine, medici, lavoro, dignità. Quando si pensa che lo
stato di inedia assoluta sia raggiunto, ci si avventa sopra per
estirpare al maggior numero possibile la vita e ai restanti la
capacità, la voglia, la possibilità di vivere. Almeno non in quel posto.

A
questo punto la scuola quadri, con aule in ogni angolo del mondo
“civilizzato”, può licenziare i suoi allievi. Quale barriera etica,
politica, sociale si può frapporre tra, da un lato, chi è cresciuto e
vissuto in un mondo, sostenuto e sacralizzato da ogni data autorità e
dal senso comune, dove stupri, ammazzamenti, efferatezze di ogni
genere, crimini contro l’umanità sono normalità, e, dall’altro, il tuo
personale protagonismo in tale normalità? Ma come, si avvolge nel caldo
giubbotto antiproiettile della “sicurezza”, antiterroristica
ovviamente, chi a Gaza giustizia a bruciapelo bambini, o incenerisce
col fosforo le loro madri, e poi non si vuole ammettere per sicurezza
quando uno toglie di mezzo quella zecca di musulmano così efficacemente
esecrata dal Corriere e dai nostri ministri degli Interni, oppure
quando un quartiere intero napoletano si “autodifende” incendiando una
comunità di rom? Lo fanno gli israeliani a Gaza, no? E tutti li
comprendono, giustificano. La ragione è quella dei vincitori. Come lo è
l’olocausto. Ché, vogliamo fare ai due pesi e due misure? Solo perché
lì la chiamano “Forza di Difesa Israeliana” e qui “branco”?
Che differenza qualitativa c’è? E, allora, come si fa a non finire in
massa preda della famosa “alienazione”? E se provassimo a processare i
torturatori e boia dei popoli, a bandire lo splatter elettronico o
filmato per apologia di reato e istigazione a delinquere, a coprire di
guano autorità che urgono di essere “cattivi” con gli immigrati, a
raccontare la storia vera di chi infligge e di chi subisce? Se ci
ricordassimo ogni giorno che capi di Stato, governi e interi parlamenti
hanno disfatto l’articolo 11 della Costituzione, quello che bandisce la
guerra e l’hanno fatto scomparire sotto i flutti di sangue di
“terroristi”, come fossimo in una Gaza qualsiasi? Non pensate che
allora quell’ “alienazione” si dissolverebbe in coscienza e che la
sicurezza cesserebbe di essere la mimetizzazione della violenza di
Stato?

Durante tutta la durata dell’ambaradan attorno a Gaza,
dove quei terroristi integralisti di Hamas continuavano a minacciare
con petardi i bravi coloni di Israele, mentre l’attenzione mondiale era
concentrata sulle misure, necessarie per quanto secondo D’Alema “un po’ sproporzionate”, di “autodifesa”
israeliane, gli insediamenti coloniali in Cisgiordania si
moltiplicavano a ritmo accelerato. Mentre li si mimetizzava con
negoziati di pace, autentici come il progressismo di Obama o
l’opposizione di Veltroni, e con una tregua di 18 mesi, nel solo 2008
Israele aumenta del 60% insediamenti che rendono per sempre una
fanfaluca lo pseudostaterello a cantoni palestinese. Questo, alla
faccia dei famigerati accordi di Oslo e di tutti i successivi che tali
insediamenti proibivano. Meglio che dai teppisti delle colonie, che
perlopiù spaccano solo la testa ai contadini palestinesi, o dei
militari di Tsahal che sparano a qualche manifestante, la sicurezza del
colonizzatore era assicurata dai pretoriani, armati dal carnefice, del
presidente ANP Abu Mazen, rappresentante del grumo ricco e corrotto del
disfacimento palestinese, ma fiduciario di coloro che tale disfacimento
perseguono.

Assaltando una striscia grande come mezza provincia
di Roma, con la potenza del quarto e più impunito esercito del mondo,
Israele ha ucciso sulle prime 1.360 palestinesi, all’85% civili inermi,
di cui oltre 400 bambini, con molti altri in arrivo successivamente,
estratti da sotto le macerie o mangiati dalle mutilazioni, dal fosforo
o dall’uranio. A queste armi proibite e più criminali ancora di tutte
le altre, ha aggiunto un gingillo perfettamente in linea con quanto
sugli arabi si insegna agli scolaretti di Sion: freccette d’acciaio che
schizzano a decine da un ordigno e non hanno altro scopo che quello di
perforare carni di esseri umani. Avevo visto qualcosa di analogamente
perfido a Hebron, la città cisgiordana dove imperversa da anni mezzo
migliaio di coloni fascisti arrivati dagli Usa. Si chiamavano
“farfalle” ed erano proiettili con sulla punta un’elica rotante che
aveva il compito di tritare i corpi nei quali penetrava.

Dalle
ventimila case distrutte o devastate sono scampati circa 100mila
persone, in buona parte finite in nuove tendopoli, a memoria di quelle
nelle quali i gazaiani, già profughi delle espulsioni della nakba,
si erano accasati nel 1948. A volte ritornano. In osservanza rigorosa
del diritto di guerra e delle convenzioni internazionali, Israele ha
poi decostruito con le bombe l’intero assetto del territorio,
amministrativo, infrastrutturale, agricolo, industriale, distributivo.
Per ergersi a massimo custode della sicurezza, Israele ha perfezionato
l’olocausto e lo sberleffo a un’ umanità non normalizzata massacrando
decine di civili rifugiatisi delle sedi dell’ONU, colpendo scuole,
moschee e ospedali, bloccando ambulanze e uccidendo sanitari che
correvano in soccorso a feriti, chiudendo intere famiglie in case poi
rase al suolo, mitragliando dai carri torme di civili in fuga con
bandiere bianche, fornendo a medici egiziani decine di bimbetti con
pallottole nel cranio o nel corpo, sparate da distanza ravvicinata.
Nessun apparato della Germania nazista era mai riuscito a eseguire una
così integrale punizione collettiva, crimine di guerra, crimine contro
l’umanità. E chi si affacciava con intenti di soccorso umanitario al
largo di Gaza, all’interno delle acque territoriali palestinesi, come i
battelli umanitari del “Free Gaza Movement”, veniva
aggredito, sequestrato e dirottato. Una menzione molto speciale merita
qui il nostro compagno Vittorio Arrigoni che, prima incarcerato e
maltrattato dagli israeliani, poi liberato, ha avuto il coraggio e la
nobiltà di tornare a Gaza e di farsi l’intero genocidio correndo con le
ambulanze a raccattare morti e soccorrere feriti. La sua voce, ripresa
dal “manifesto” per tutta la durata della strage, insieme ad Al Jazeera
(per chi ha il satellite e sa l’inglese), è stata per l’informazione
quello che i tunnel tra Gaza ed Egitto sono per la sopravvivenza
palestinese.

Dopo aver ridotto Gaza a un deserto orlato di filo
spinato, Israele e il suo alleato egiziano hanno continuato il blocco
della morte. L’Egitto del tirannico satrapo Mubaraq, vacillante come
gli altri regimi vassalli degli Usa per i sommovimenti di massa
innescati da Gaza, ha superato se stesso. Chiudendo dentro Gaza
bombardati i "fratelli arabi", feriti, morti di fame, macerie, ha
contribuito a realizzare il sogno del Capo di Stato Maggiore
israeliano, Rafael Eitan, quando vaticinò “palestinesi in fuga, impazziti come scarafaggi chiusi in una bottiglia”.
Spiragli nell’embargo, con qualche carico di farina o qualche sacca di
plasma, hanno il sapiente scopo di prolungare l’agonia. Troppo comodo
morire con un proiettile in faccia, o sminuzzati per successive
amputazioni da necrosi inarrestabili. Vista l’aria che tira, impregnata
di veleni chimici sparsi dall’aggressore, ai palestinesi di Gaza è
negato anche il respiro. A Jenin, nel 2002, era stato riservato lo
stesso destino. Del resto, è una costante dal 1948. Una costante che da
sempre cammina su tre gambe e tutto travolge, comprese le truppe di
complemento della “sinistra”. Una gamba è la favola del “ritorno”,
che è ritorno dove i "ritornanti" non sono mai stati, giacchè la
deportazione sotto l’imperatore Tito è una favola e coloro che si sono
aggiunti ai pochi arabi di Palestina, del Medio Oriente e di Spagna,
convertitisi nei millenni all’ebraismo, sono genti europee e caucasiche
che i più aggiornati studi storici dimostrano provenienti dal regno dei
Khazari nelle regioni tra Caspio e Mar Nero. Si convertirono
all’ebraismo intorno al Mille e dilagarono poi verso occidente. L’altra
gamba, altrettanto fasulla, è “l’antisemitismo” , parolina
magica che rende immuni da colpa i delitti compiuti contro i veri
semiti, dagli 8 milioni di palestinesi ai 300 e passa milioni di arabi.
La terza gamba è “la guerra al terrorismo”, una truffa
galattica con cui Usa e alleati imperialisti in seconda perseguono il
controllo di giacimenti e oleodotti, l’assalto alle libertà
democratiche, i profitti del complesso militar-industriale, la
creazione dello Stato-mondo di polizia, l’espansione territoriale di
Israele, nel quadro della progettata frantumazione delle nazioni da
ricolonizzare.

Si fustiga con sdegno chi osa l’inosabile:
l’accostamento tra sionismo e nazismo. Per quanto i più frequenti a
formulare questi confronti siano propri opinionisti e storici ebrei. Ho
vissuto la vicenda israelopalestinese fin dal 1967, Guerra dei Sei
Giorni, e poi nelle guerre e stragi successive, fino alle invasioni del
Libano, fino a Sabra e Shatila, fino alla spoliazione progressiva di
Gaza e della Cisgiordania. Un tale accumulo di nequizie, di vessazioni,
di ammazzamenti, di delitti di ogni genere da far impallidire non
Gengis Khan, poveretto, ma la sua fama. Non Nerone, ma il ritratto che
ne hanno dipinto storici patrizi e cristiani. Non Saddam, ma la sua
gigantesca deformazione a opera di mille Magdi Allam. Fu dall’aver
visto trasformare in "autodifesa" l’attacco ai paesi arabi e
l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza, quanto restava della
Palestina dopo i pogrom israeliani, che ho iniziato a capire come nella
mia professione di giornalista coloro che obbedivano alla verità e
potevano esprimerla fossero rari quanto la particella di sodio in una
certa acqua minerale. Ma neanche quella particella aveva libertà totale
d’espressione. Se i villaggi rasi al suolo dai tank israeliani sui
quali viaggiavo, battendo sulla “Lettera 22” per “Paese Sera” quanto
poi sarebbe stato censurato dal commando israeliano, continuavano a
farmi venire in mente S. Anna di Stazzema, o Marzabotto, questo no,
questo proprio non potevo scriverlo neanch’io. E’ grazie a questo
editore, forse l’unico in Italia, che oggi mi posso permettere di
riflettere su come Hitler avesse vinto le sue prime e uniche elezioni
grazie ai meriti securitari acquisiti ramazzando un po’ di comunisti e
socialisti. I capipartito israeliani, etilizzati da cannibalismo
etnico, condiviso da quasi l’intera comunità nazionale, hanno fatto la
regata elettorale utilizzando per remi cadaveri palestinesi e
appendendo bambini all’albero maestro. In piccolo, i nostrani bifronti
bipartisan corrono al voto carburati da donne stuprate, famiglie
sterminate da famigliari, migranti che osano pregare sui sagrati,
giovani che bevono fuori orario e sui gradini. Israele non è poi così
lontana.

Hitler smise poi del tutto di fare elezioni. Israele,
che è democratica, no. All’idea di cosa potrà succedere ai palestinesi
in vista delle prossime elezioni israeliane si ghiaccia il cuore. Ma
forse, quella volta, sarà diverso. Perché a Gaza la storia è caduta dal
cavallo. Come San Paolo. Lo vedremo alla fine di questo libro.

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LA PAROLA A ILAN PAPPE di fulvio grimaldi

LA PAROLA A ILAN PAPPE

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Come possiamo restituire i territori occupati? Non c’è nessuno a cui restituirli.
(Golda Meir, Premier israeliano, 1969)

Israele
doveva sfruttare la repressione delle dimostrazioni in Cina (nei giorni
di Tienanmen) quando l’attenzione del mondo era concentrata su quel
paese, per procedere all’espulsione di massa degli arabi dai territori.

(Benyamin Netanyahu, favorito candidato premier per le elezioni israeliani del 10/2/09)

La parola a Ilan Pappe

In
questo palazzo, il 10 marzo 1948, in un freddo pomeriggio, un gruppo di
undici uomini, dirigenti sionisti veterani insieme a giovani ufficiali
ebrei, diedero il tocco finale al piano di pulizia etnica della
Palestina. La sera stessa venivano trasmessi alle unità sul campo gli
ordini di effettuare i preparativi per la sistematica espulsione dei
palestinesi da vaste aeree del territorio. Gli ordini erano
accompagnati da una minuziosa descrizione dei metodi da usare per
cacciar via la popolazione con la forza: intimidazioni su vasta scala;
assedio e bombardamento di villaggi e centri abitati; incendi di case,
proprietà e beni; espulsioni; demolizioni; e, infine, collocazione di
mine tra le macerie per impedire agli abitanti espulsi di far ritorno…
Questo progetto definitivo dichiarava in modo esplicito e senza
ambiguità: i palestinesi devono andarsene… l’obiettivo era la
distruzione delle aree rurali e urbane della Palestina…
Presa la
decisione, ci vollero sei mesi per portare a termine la missione.
Quando questa fu compiuta, più della metà della popolazione palestinese
originaria, quasi 800.000 persone, era stata sradicata, 531 villaggi
erano stati distrutti e 11 quartieri urbani svuotati dei loro abitanti.
Il piano e la sua sistematica attuazione fu un caso lampante di
un’operazione di pulizia etnica, considerata oggi dal diritto
internazionale un crimine contro l’umanità.
Dopo l’Olocausto è
diventato quasi impossibile occultare crimini contro l’umanità su larga
scala… Invece uno di questi crimini è stato quasi completamente
cancellato dalla memoria pubblica mondiale: l’espropriazione delle
terre dei palestinesi da parte di Israele nel 1948. Questa vicenda, la
più decisiva nella storia moderna dalla terra di Palestina, è stata da
allora sistematicamente negata e ancora oggi non è riconosciuta come un
fatto storico e tanto meno ammessa come un crimine con il quale è
necessario confrontarsi sia politicamente, sia moralmente.
La
pulizia etnica è un crimine contro l’umanità e le persone che oggi lo
commettono sono considerati criminali da portare davanti a tribunali
speciali…
Mi sento insieme responsabile e parte della storia e, come
altri nella mia stessa società, sono convinto che un simile doloroso
viaggio nel passato è il solo percorso che abbiamo di fronte se
vogliamo creare un futuro migliore per tutti noi, palestinesi e
israeliani,
(Ilan Pappe, “La pulizia etnica della Palestina”, Fazi Editore)

Breve nota storica
Il
lavoro di Ilan Pappe, uno dei “Nuovi Storici” israeliani, costretto a
lasciare la cattedra di Haifa e a trasferirsi all’Università di Exeter,
è esploso come una bomba in un’opinione pubblica israeliana e mondiale,
fino allora in massima parte intossicata ed accecata dalla propaganda
di regime israeliana e dei governi e media a tale regime allineati.
La
citazione riportata si riferisce al peccato d’origine, pervicamente
ignorato o occultato, nella storia del confronto arabo-israeliano e
della questione palestinese. Un’invasione-occupazione sostituita, al
meglio, dalla mistificazione della “contesta di due popoli per la
stessa terra” e, al peggio, dalla “guerra della democrazia contro il
terrorismo”.

Ma il 1948 non fu che l’inizio di una della più
terribili storie di persecuzione e liquidazione, svoltasi nella totale
impunità dei responsabili e nella complicità della sedicente “comunità
internazionale”. L’ONU, nel 1947, aveva indebitamente spartito la
Palestina concedendo alla minoranza di invasori (europei, asiatici e
statunitensi e in minima parte mediorientali e africani) ben il 52% del
territorio. Già pochi mesi dopo, espulsa oltre metà della popolazione
autoctona, Israele si era impadronita con la forza complessivamente del
78%. Nel 1967, con la Guerra dei sei giorni, Israele si prese il resto
della Palestina che iniziò a colonizzare con propri insediamenti,
popolati oggi da oltre mezzo milione di coloni a dominio degli ultimi
frammenti separati di presenza palestinese. Nel 1978 e nel 1982
Israele, per accaparrarsi oltre a tutte le acque palestinesi anche
quelle del Litani in Libano, invase ripetutamente il paese vicino
uccidendo migliaia di civili e compiendo, con Ariel Sharon e i suoi
alleati falangisti, la strage dei 3000 civili a Sabra e Shatila. Dal
Libano, le truppe israeliane furono cacciate dai combattenti di
Hezbollah nel 2000. Una seconda invasione, nel 2006, ebbe lo steso
risultato. Pagando la propria resistenza con l’uccisione di oltre 1.300
concittadini libanesi, Hezbollah e i suoi alleati respinsero l’attacco
nel giro di poco più di un mese.

Gaza, sgomberata da Sharon dei
suoi 6000 coloni per poter meglio disporre militarmente della Striscia,
viene assaltata il 27 dicembre 2008 dopo un blocco di 18 mesi che aveva
ridotto il milione e mezzo di abitanti alla fame, al collasso
economico, alla neutralizzazione di tutte le strutture vitali. Nello
stesso periodo assassinii mirati e bombardamenti provocano la morte di
centinaia di civili e dirigenti. Proseguono anche le incursioni, le
distruzioni, le uccisioni e gli arresti in Cisgiordania dove la polizia
del presidente Abu Mazen (Mahmud Abbas) da man forte all’occupante.
11.000 sono nel 2009 i palestinesi detenuti e spesso torturati (come
denunciano le organizzazioni umanitarie israeliane e internazionali)
nelle carceri israeliane, perlopiù senza processo e senza imputazioni.
A Gaza, una tregua di tre mesi, stabilita nell’autunno 2008 sotto
auspici internazionali, viene violata unilateralmente da Israele con la
continuazione del blocco (atto di guerra per la Convenzione di Ginevra)
e con un’incursione il 4 novembre che provoca la morte di sei cittadini
palestinesi. Solo a questo punto Hamas, il legittimo governo della
Palestina occupata e, in quanto occupata, autorizzata dalla Carta delle
Nazioni Unite a resistere con tutti i mezzi, risponde con i razzi
artigianali Kassam. L’impari scambio di ostilità risulta in 3 vittime
israeliane e in quasi 7000 abitanti di Gaza uccisi o feriti. Quasi
all’unanimità governi, forze politiche “democratiche” e media,
confortati dal consenso del quisling palestinese Abu Mazen, le cui
milizie sono addestrate, finanziate e armate dagli Usa, attribuiscono
ad Hamas l’intera responsabilità della crisi e del successivo genocidio.

Intanto
cinque milioni di palestinesi in esilio attendono il ritorno alle loro
case sancito dalle risoluzioni delle Nazioni Unite. 8 milioni di
palestinesi chiedono, dopo sessant’anni, che le leggi universali del
diritto umanitario e dell’autodeterminazione dei popoli valgano anche
per loro. Forse il martirio di Gaza ha avvicinato quel momento. Contro
ogni aspettativa israeliana, l’enormità dei crimini perpetrati, che si
proponevano come modello per il dominio sui deboli in tutto il mondo,
può rappresentare una svolta storica nello scontro tra verità e
menzogna, tra ragione e torto, tra giustizia e ingiustizia, tra passato
e futuro. In Palestina e non solo.

 

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CON CUBA SENZA SE E CON QUALCHE MA NEL 50° DELLA RIVOLUZIONE PIU’ BELLA (di Fulvio Grimaldi)

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Su
questo titolo, sotto la bella foto di Madrid, sicuramente qualcuno
arriccerà o il naso o le sopraciglia, a seconda di disgusto o
perplessità. Ho violato un tabù! Ma come, “con qualche ma” ! Scandaloso
vero? E invece va bene così, sempre se sei un amico vero di Cuba, e non
un suo chierico adorante, e se alla rivoluzione cubana ci tieni come
all’anima tua. Se c’è una cosa che nei lunghi anni della mia
frequentazione di Cuba e della diffusione che vado facendo di voci,
immagini e verità cubane, mi ha profondamente infastidito è
l’adorazione acritica di tutto quanto succede nell’isola, dal belato
della pecora alle dichiarazioni di Fidel. Nel parlare della rivoluzione
giovane di cinquant’anni, ma con qualche ruga, mi preme in primis
prendere le distanze da questa genìa. O quanto bene la conosco! Sono
coloro che hanno in corpo il bisogno infantile di prostrarsi davanti a
un qualche idolo, vitello d’oro o Jehova che sia. A volte, gratta
gratta, sotto i “senza se e senza ma” ci trovi gente che a Cuba si è
fiondata al richiamo di stimoli del tutto extrarivoluzionari,
extrapolitici, e che poi queste istanze delle loro zone basse rivestono
delle pailettes fideliste, guevariane, più che dell’
identificazione con l’arduo, nobile, a volte intralciato (un passo
avanti e due indietro, diceva Lenin), cammino della rivoluzione
socialista. Si sentono riabilitati nella coscienza dalla generosità con
cui Cuba elargisce, comprensibilmente, ospitalità e riconoscimenti. Chi
non lo farebbe nei confronti di sostenitori che, comunque, sventolano
quella bandiera e onorano quella vicenda, mentre si trova serrato al
collo da un’ aggressione imperialista pari per ferocia e durata solo a
quella che lo Stato fuorilegge israeliano infligge al popolo
palestinese? Ai cubani, lo sanno tutti i latinoamericani, non piacciono
molto le critiche. Per un verso ne hanno ben donde, sono stati i primi
e i più bravi. Ma i cubani, intelligenti ed evoluti come sono, sanno
anche molto bene che è amico e chi ruffiano.

Qua sopra, a
proposito, vedete un’immagine dei diecimila che a Madrid hanno sfilato
per il 50° della rivoluzione cubana. Accanto a quella cubana, svetta la
bandiera della Palestina. Non ricordo occasioni, salvo qualche
coraggiosa partecipazione di gruppi locali, in cui le recenti
manifestazioni contro il terrorismo di sterminio israeliano e per la
Palestina libera abbiano registrato la presenza dell’ufficialità
nazionale filocubana. E se da Cuba, dai suoi combattenti per la
liberazione degli africani dal colonialismo e dall’apartheid, dai suoi
insegnanti, medici e istruttori sportivi che in giro per il mondo
estraggono dall’ignoranza e dalla malattia – mens sana in corpore sano !
– interi popoli fin qui esclusi, non si è imparato l’internazionalismo,
la solidarietà con Cuba equivale a quei pacifisti che innalzano
bandiere arcobaleno, ma inorridiscono davanti alla resistenza di
iracheni, afghani, palestinesi, colombiani. E, con riguardo a questi
ultimi, è lecito o no anteporre la rivoluzione perfino a Fidel, quando
il comandante si disimpegna da una lotta in Colombia che, pure,
ripercorre, per dura necessità antifascista ed antimperialista, i passi
dello stesso Fidel, del Che, di Camilo, essendogli stata preclusa con i
massacri ogni altra via alla giustizia? Io, che dedico buona parte
della mio modesto impegno al sostegno di Cuba, posso o no pronunciare
un piccolo “ma” quando sento bertinottescamente dire, sullo sfondo dei
genocidi inflitti dall’imperialismo ai “popoli di troppo”, che la lotta
armata è roba d’altri tempi e che i prigionieri delle FARC “devono essere rilasciati senza condizioni”
, a dispetto e tradimento delle centinaia di patrioti e compagni delle
FARC che agonizzano nelle segrete della tortura colombiane? O quando un
giovanotto, dirigente dell’Organizzazione degli Studenti cubani,
risponde con stereotipe formulette sulla “libertà religiosa” alla
domanda su cosa mai migliaia di cubani vadano cercando nelle chiese
evangeliche, strumento dell’infiltrazione controrivoluzionaria Usa, che
la rivoluzione non gli offre? O quando, alla ricerca di una zappa per
sradicare erbacce infestanti, un esimio economista cerca di dimostrarmi
che era corretto impostare lo sviluppo cubano sui servizi, piuttosto
che sull’industria di base, meccanica, degli utensili? Ma se ogni cosa
deve essere importata e la tua economia dipende quasi per intero dalla
valuta in arrivo con il turismo, che ne potrà mai essere di una
sovranità appesa all’incerta disponibilità di fornitori, perlopiù
nemici? Vogliamo nasconderci l’assurdo percorso di guerra che devono
superare coloro che da fuori propongono progetti di solidarietà, o la
tara della doppia valuta che rischia di riaprire una divisione in
classi favorendo la fauna che prospera attorno al turismo a scapito di
chi lavora e produce. Quando, finito, se il cielo vuole, il criminale
embargo, sull’isola arriveranno le locuste nordamericane e mafiocubane,
quel giro d’affari, non sempre limpidissimo, non minaccerà di produrre
una classe di paperoni e vecchi valori di scambio? E visto che Cuba
straripa di argilla, buona per eccellenti tegole, vogliamo o no
liberarci delle migliaia di tetti d’amianto che seminano nell’isola e
nei polmoni patologie per generazioni? Non è Cuba all’avanguardia, con
decenni di vantaggio, su tutti i paesi della regione e sulla quasi
totalità dei paesi del mondo, quanto a difesa ambientale e progresso
ecologico?

E qui mi scappa un altro “ma”. Se è
vero, come è vero, che gli animali sono i nostri fratelli in Terra più
deboli e migliori, non mi sta bene che per Cuba continuino a sfuggire
alla rivoluzione migliaia di cagnetti che si aggirano abbandonati per
le vie dell’isola ischeletriti, in preda al cimurro e alla lesmaniosi,
in spregio agli appassionati e disperati sforzi di pochi veterinari, o
che si allevino coccodrilli in via di estinzione per estrarne borsette
per cretine da Quinta Strada. Il mio bassotto Nando ne ha parlato più
volte a un comprensivo Fidel, ma poi ci sono le famose “priorità”.
Dipendesse da Fidel… Molte di queste cose e molte altre sono state
espresse direttamente, con formidabile intelligenza rivoluzionaria,
dagli studenti dell’Università dell’Avana i quali hanno ben compreso
che nella lunga marcia della rivoluzione ogni tanto occorre uno
scossone, uno scatto che scuota passi a rischio di autocompiacimento,
di inerzia, di letale burocratizzazione brezhneviana. L’unica cosa che
procede per inerzia è il moto perpetuo. Che però non è stato ancora
inventato.

Ombre che non offuscano le luci che ininterrottamente
da 50 anni dall’isola si spandono sul mondo con la forza di una volontà
e di una verità che è riuscita a intralciare, grazie appunto anche ai
veri amici di Cuba, quelli rivoluzionari, lo tsunami politico e
mediatico della diffamazione, delle menzogne, delle campagne
terroristiche, delle guerre economiche e biologiche. Luci che in
America Latina sono diventate fiamme e hanno incendiato un continente.
Scrive giustamente Maurizio Matteuzzi sul “manifesto”: “Se il 1.
gennaio 1959 la rivoluzione cubana non avesse vinto non ci sarebbe
stato il rinascimento democratico e progressista dell’America Latina…
Se non ci fosse stato “l’antidemocratico” Fidel Castro, oggi non ci
sarebbero i Chavez, i Morales, i Correa , i radicali, ma neanche i
Lula, i Kirchner, i Lugo, i moderati, e forse neppure i Vasquez e
Bachelet, i pallidissimi”.
Aggiungo che senza l’incredibile,
indomabile forza di resistenza delle masse cubane, l’intelligenza dei
quadri dirigenti educati da un’istruzione rivoluzionaria per tutti,
l’indefettibile difesa e diffusione dei diritti umani collettivi,
quelli fondamentali, della conoscenza, della sanità, del lavoro, della
sicurezza e cura di bambini, donne e anziani (con tutti i limiti dovuti
allo strangolamento, all’isolamento geopolitico e anche all’indolenza
caraibica), a quale filo di speranza avrebbero potuto allacciarsi nelle
Americhe i milioni di oppressi, schiacciati, obliterati da cinque
secoli?

Eccoci qua, noialtri, rinserrati in Stati e manipolati
da forze politiche che praticano la virtù massima della macelleria
sociale all’interno e del colonialismo subimperialista verso terre e
genti già predate nei secoli e ora da riconquistare e spopolare col
terrorismo. Eccoci qua, corruttori di menti e sfruttatori di corpi,
rapinatori e devastatori dell’ambiente, ammaestrati da cosche criminali
a cavare qualche detrito di vita e di benessere dal genocidio degli
altri e dal taglio delle gambe ai nostri pari. Eccoci qua che sulla
tessera dei “Giovani Comunisti”, sedicenti tali forse da sempre, fieri
e ottusi mettiamo la foto di chi smantella il muro di Berlino regalando
ai vampiri del capitalismo quel milione di morti ammazzati dal “libero
mercato” nei paesi dell’Est. Mica ci hanno messo il muro lungo il Rio
Bravo contro cui si infrangono le vite di chi dai costruttori di quel
muro ha avuto solo la scelta di morire nella terra da loro
saccheggiata, o fucilato da ronde di tipo padano lungo il confine. Né
ci hanno dipinto quell’altro muro dell’apartheid che punta a
disintegrare definitivamente, chiudendolo in riserve indiane, il popolo
che di quella terra è il legittimo titolare. E neppure qualcuno ha
messo sulla sua tessera di rivoluzionario la muraglia invisibile dei
necrocrati che, vista l’impossibilità di ricostruire il vecchio
lupanare, vorrebbero allargare la loro Guantanamo a tutta Cuba. Cuba, e
poi i suoi succedanei in Venezuela e Bolivia, hanno rotto i rapporti
con lo Stato Canaglia israeliano e hanno invitato il mondo civile a
condannare “i criminali massacri e a mobilitarsi per esigere
l’immediata cessazione degli attacchi contro la popolazione civile
palestinese, rinnovando solidarietà e sostegno indefettibili al
sofferente ed eroico popolo palestinese”
. Qui ci si balocca con codarde e indecenti equidistanze tra chi, prima di farsi eliminare, tira due razzi di latta e il “popolo della Shoah che si difende”. Ci
dividiamo tra le due bande del partito unico che, in ottemperanza agli
interessi della criminalità organizzata, indigena e imperialista,
manifestano il massimo della convergenza delinquenziale nella
complicità con olocausti più estesi nel tempo e più definitivi nella
soluzione di quello che si pretende essere l’unico. E ci permettiamo di
assistere dalla finestra alla gogna di un conduttore televisivo che,
unico nella bolgia dei rinnegati, bugiardi e cospiratori, ha mostrato di che lacrime grondi e di che sangue la “democrazia” israeliana.

Su
Cuba, grazie alla demenziale manomissione inflitta al clima di tutti
dalla cieca voracità di pochi, si abbattono cicloni cui non si può
impedire di stritolare case, campi, fattorie e fabbriche, ma ai quali
la rivoluzione sottrae i sacrifici umani che decimano le popolazioni di
tutti i paesi coinvolti, compresi gli Usa. Da noi frane, alluvioni,
bufere, mareggiate ci lasciano inermi e nudi ai piedi dei fortilizi dei
potenti. Basterebbe l’antimperialismo dei saggi cubani, filo rosso che
attraversa ogni momento di questi 50 anni e che è il più convincente
esempio della possibilità e della necessità della fratellanza umana,
per impegnare ogni essere raziocinante e giusto alla difesa di Cuba e,
come diceva il Che, alla lotta hasta la muerte su tutti i
campi di battaglia del mondo. Qui di Guantanamo ne sopportiamo
serenamente tante che metastizzano le regioni di mezzo paese. Non solo.
Ce ne facciamo utilizzare per riprodurre in giro per il mondo le rapine
e le carneficine che Mussolini faceva da solo o al seguito di Hitler.

Siamo
dovuti andare a Cuba, e poi a Caracas e a La Paz, per farci trarre
dalla nebbia tossica dello scontro di civiltà a base di guerra al
terrorismo, per farci illustrare in modo inoppugnabile quale sia il
terrorismo nel mondo e chi ne sono i promotori e piloti. E grazie a
Cuba – e a pochi isolati “complottisti” in Occidente, esecrati
addirittura dalla sinistra – che si è lacerato il mostruoso inganno del
“terrorismo” diventato, con la speculare frode della “democrazia” e
della “sicurezza”, “l’ascia di guerra per lo scontro di civiltà, la bandiera delle spedizioni di conquista”
e della ricostituzione di una dittatura borghese che, nella morsa della
sua crisi, si propone di diventare la più spietata di tutti i tempi.

Nei giorni scorsi è apparso sui giornali di sinistra un megadocumento intitolato, con involontaria ironia, “Ritorno al futuro”
e firmato da una caterva di illustri detriti dell’”Arcobaleno”, con in
testa la masnada poltronara e di pura fuffa del vendolismo. Se i
padroni vicini e lontani sognavano una rassicurazione strategica,
questo lieve programmino socialdemocratico, che parte, sì, dal basso,
ma dalla bassa politica, glie l’ha garantita. Stato sociale, certo, l’egida dell’ONU per la salvaguardia dell’ambiente e del rapporto produzione-riproduzione della forza lavoro, come no, regole contro gli abusi finanziari, perbacco, interventi pubblici nell’economia, già li fanno Tremonti e Brunetta, l’utilizzo a pieno (da parte di chi?) delle capacità e competenze formate dalla scuola e dall’università, come dice Gelmini, mobilità collettiva e individuale,
come detta Fiat, e bla bla bla. Peccato che questi neoprodiani si siano
dimenticati dell’imballaggio in cui tutti i bei propositi vanno a
essere chiusi: l’imperialismo. Termine non trendy, lo so, ma
credono davvero questi profeti delle compatibilità e della nonviolenza
che si diano rapporti capitale-lavoro non vampireschi, salvaguardie
dell’ambiente, emancipazione dei deboli e delle donne, immigrazione
accettata e onorata, quando si è parte integrante di un meccanismo
planetario di dominio, sfruttamento e distruzione, di deumanizzazione,
come è quello del capitalismo al suo apice imperialista? Molti di
costoro hanno votato per l’assalto a popoli poveri e inermi, nessuno di
loro parla più di Nato e delle basi nella colonia Italia, non ci si
cura del fatto che a tirare le fila dei veltrusconi (fra un po’
chiederò le royalties per il termine) ci sono i burattinai a
stelle e striscie, tutti schizzano la lotta dell’effettivamente
equivoco (ma che c’entra?) Di Pietro contro il rullo compressore
piduista-fascista che frantuma libertà e diritti.

Le luci da
Cuba denudano i re e i loro corifei. La storia vissuta a Cuba è la
prima a darci lezioni per il presente. Grazie a essa possiamo capire il
prezzo, le difficoltà, gli arretramenti e le conquiste di libertà come
ideale concreto, la forza e la fragilità delle utopie, la precarietà
delle fede quando è indiscussa e sterilmente superba, il carattere
insaziabile della libertà. Da essa ci viene la lezione del’irriducibile
resistenza al colonialismo, politico, economico, culturale.

A
Cuba abbiamo dovuto lottare contro due colonizzazioni, quella del
capitalismo e quella del socialismo detto reale. Queste colonizzazioni
richiedono l’esercizio del pensiero critico collettivo. Per favorire
questo pensiero, senza il quale non è possibile rompere con la cultura
del capitale, occorre riformulare il tipo di potere che costruiamo in
tutte le nostre relazioni sociali: il potere tra figli e genitori, il
potere tra maestro e alunno, il potere tra Stato e popolo… Siccome
vogliamo il socialismo, dobbiamo riscoprirlo nell’organizzazione della
produzione, nel lavoro libero e associato, sociale, cooperativo e
autogestito, nella forma in cui il discorso sociale deve essere
inserito nel discorso politico, nella consapevolezza che all’inizio di
tutto sta la sconfitta dell’imperialismo, condizione perché
l’eliminazione dello sfruttamento sia l’eliminazione della povertà, ma
anche dell’alienazione, come voleva il Che Guevara”.
Così
parlarono a Fidel Castro Ariel Dacon, Julio Antonio Fernandez, Julio
César Guanche, Diosnara Ortega, studenti dell’Università dell’Avana.
Gente che ci auguriamo si possa presto vedere al timone della
rivoluzione. Gli anziani, per quanto gloriosi, veterani della
rivoluzione che alle ultime elezioni sono tornati a occupare l’intero
governo cubano, se ne possono fidare.
Posted in Generale | Comments Off on CON CUBA SENZA SE E CON QUALCHE MA NEL 50° DELLA RIVOLUZIONE PIU’ BELLA (di Fulvio Grimaldi)

CON CUBA SENZA SE E CON QUALCHE MA NEL 50° DELLA RIVOLUZIONE PIU’ BELLA (di Fulvio Grimaldi)

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Su
questo titolo, sotto la bella foto di Madrid, sicuramente qualcuno
arriccerà o il naso o le sopraciglia, a seconda di disgusto o
perplessità. Ho violato un tabù! Ma come, “con qualche ma” ! Scandaloso
vero? E invece va bene così, sempre se sei un amico vero di Cuba, e non
un suo chierico adorante, e se alla rivoluzione cubana ci tieni come
all’anima tua. Se c’è una cosa che nei lunghi anni della mia
frequentazione di Cuba e della diffusione che vado facendo di voci,
immagini e verità cubane, mi ha profondamente infastidito è
l’adorazione acritica di tutto quanto succede nell’isola, dal belato
della pecora alle dichiarazioni di Fidel. Nel parlare della rivoluzione
giovane di cinquant’anni, ma con qualche ruga, mi preme in primis
prendere le distanze da questa genìa. O quanto bene la conosco! Sono
coloro che hanno in corpo il bisogno infantile di prostrarsi davanti a
un qualche idolo, vitello d’oro o Jehova che sia. A volte, gratta
gratta, sotto i “senza se e senza ma” ci trovi gente che a Cuba si è
fiondata al richiamo di stimoli del tutto extrarivoluzionari,
extrapolitici, e che poi queste istanze delle loro zone basse rivestono
delle pailettes fideliste, guevariane, più che dell’
identificazione con l’arduo, nobile, a volte intralciato (un passo
avanti e due indietro, diceva Lenin), cammino della rivoluzione
socialista. Si sentono riabilitati nella coscienza dalla generosità con
cui Cuba elargisce, comprensibilmente, ospitalità e riconoscimenti. Chi
non lo farebbe nei confronti di sostenitori che, comunque, sventolano
quella bandiera e onorano quella vicenda, mentre si trova serrato al
collo da un’ aggressione imperialista pari per ferocia e durata solo a
quella che lo Stato fuorilegge israeliano infligge al popolo
palestinese? Ai cubani, lo sanno tutti i latinoamericani, non piacciono
molto le critiche. Per un verso ne hanno ben donde, sono stati i primi
e i più bravi. Ma i cubani, intelligenti ed evoluti come sono, sanno
anche molto bene che è amico e chi ruffiano.

Qua sopra, a
proposito, vedete un’immagine dei diecimila che a Madrid hanno sfilato
per il 50° della rivoluzione cubana. Accanto a quella cubana, svetta la
bandiera della Palestina. Non ricordo occasioni, salvo qualche
coraggiosa partecipazione di gruppi locali, in cui le recenti
manifestazioni contro il terrorismo di sterminio israeliano e per la
Palestina libera abbiano registrato la presenza dell’ufficialità
nazionale filocubana. E se da Cuba, dai suoi combattenti per la
liberazione degli africani dal colonialismo e dall’apartheid, dai suoi
insegnanti, medici e istruttori sportivi che in giro per il mondo
estraggono dall’ignoranza e dalla malattia – mens sana in corpore sano !
– interi popoli fin qui esclusi, non si è imparato l’internazionalismo,
la solidarietà con Cuba equivale a quei pacifisti che innalzano
bandiere arcobaleno, ma inorridiscono davanti alla resistenza di
iracheni, afghani, palestinesi, colombiani. E, con riguardo a questi
ultimi, è lecito o no anteporre la rivoluzione perfino a Fidel, quando
il comandante si disimpegna da una lotta in Colombia che, pure,
ripercorre, per dura necessità antifascista ed antimperialista, i passi
dello stesso Fidel, del Che, di Camilo, essendogli stata preclusa con i
massacri ogni altra via alla giustizia? Io, che dedico buona parte
della mio modesto impegno al sostegno di Cuba, posso o no pronunciare
un piccolo “ma” quando sento bertinottescamente dire, sullo sfondo dei
genocidi inflitti dall’imperialismo ai “popoli di troppo”, che la lotta
armata è roba d’altri tempi e che i prigionieri delle FARC “devono essere rilasciati senza condizioni”
, a dispetto e tradimento delle centinaia di patrioti e compagni delle
FARC che agonizzano nelle segrete della tortura colombiane? O quando un
giovanotto, dirigente dell’Organizzazione degli Studenti cubani,
risponde con stereotipe formulette sulla “libertà religiosa” alla
domanda su cosa mai migliaia di cubani vadano cercando nelle chiese
evangeliche, strumento dell’infiltrazione controrivoluzionaria Usa, che
la rivoluzione non gli offre? O quando, alla ricerca di una zappa per
sradicare erbacce infestanti, un esimio economista cerca di dimostrarmi
che era corretto impostare lo sviluppo cubano sui servizi, piuttosto
che sull’industria di base, meccanica, degli utensili? Ma se ogni cosa
deve essere importata e la tua economia dipende quasi per intero dalla
valuta in arrivo con il turismo, che ne potrà mai essere di una
sovranità appesa all’incerta disponibilità di fornitori, perlopiù
nemici? Vogliamo nasconderci l’assurdo percorso di guerra che devono
superare coloro che da fuori propongono progetti di solidarietà, o la
tara della doppia valuta che rischia di riaprire una divisione in
classi favorendo la fauna che prospera attorno al turismo a scapito di
chi lavora e produce. Quando, finito, se il cielo vuole, il criminale
embargo, sull’isola arriveranno le locuste nordamericane e mafiocubane,
quel giro d’affari, non sempre limpidissimo, non minaccerà di produrre
una classe di paperoni e vecchi valori di scambio? E visto che Cuba
straripa di argilla, buona per eccellenti tegole, vogliamo o no
liberarci delle migliaia di tetti d’amianto che seminano nell’isola e
nei polmoni patologie per generazioni? Non è Cuba all’avanguardia, con
decenni di vantaggio, su tutti i paesi della regione e sulla quasi
totalità dei paesi del mondo, quanto a difesa ambientale e progresso
ecologico?

E qui mi scappa un altro “ma”. Se è
vero, come è vero, che gli animali sono i nostri fratelli in Terra più
deboli e migliori, non mi sta bene che per Cuba continuino a sfuggire
alla rivoluzione migliaia di cagnetti che si aggirano abbandonati per
le vie dell’isola ischeletriti, in preda al cimurro e alla lesmaniosi,
in spregio agli appassionati e disperati sforzi di pochi veterinari, o
che si allevino coccodrilli in via di estinzione per estrarne borsette
per cretine da Quinta Strada. Il mio bassotto Nando ne ha parlato più
volte a un comprensivo Fidel, ma poi ci sono le famose “priorità”.
Dipendesse da Fidel… Molte di queste cose e molte altre sono state
espresse direttamente, con formidabile intelligenza rivoluzionaria,
dagli studenti dell’Università dell’Avana i quali hanno ben compreso
che nella lunga marcia della rivoluzione ogni tanto occorre uno
scossone, uno scatto che scuota passi a rischio di autocompiacimento,
di inerzia, di letale burocratizzazione brezhneviana. L’unica cosa che
procede per inerzia è il moto perpetuo. Che però non è stato ancora
inventato.

Ombre che non offuscano le luci che ininterrottamente
da 50 anni dall’isola si spandono sul mondo con la forza di una volontà
e di una verità che è riuscita a intralciare, grazie appunto anche ai
veri amici di Cuba, quelli rivoluzionari, lo tsunami politico e
mediatico della diffamazione, delle menzogne, delle campagne
terroristiche, delle guerre economiche e biologiche. Luci che in
America Latina sono diventate fiamme e hanno incendiato un continente.
Scrive giustamente Maurizio Matteuzzi sul “manifesto”: “Se il 1.
gennaio 1959 la rivoluzione cubana non avesse vinto non ci sarebbe
stato il rinascimento democratico e progressista dell’America Latina…
Se non ci fosse stato “l’antidemocratico” Fidel Castro, oggi non ci
sarebbero i Chavez, i Morales, i Correa , i radicali, ma neanche i
Lula, i Kirchner, i Lugo, i moderati, e forse neppure i Vasquez e
Bachelet, i pallidissimi”.
Aggiungo che senza l’incredibile,
indomabile forza di resistenza delle masse cubane, l’intelligenza dei
quadri dirigenti educati da un’istruzione rivoluzionaria per tutti,
l’indefettibile difesa e diffusione dei diritti umani collettivi,
quelli fondamentali, della conoscenza, della sanità, del lavoro, della
sicurezza e cura di bambini, donne e anziani (con tutti i limiti dovuti
allo strangolamento, all’isolamento geopolitico e anche all’indolenza
caraibica), a quale filo di speranza avrebbero potuto allacciarsi nelle
Americhe i milioni di oppressi, schiacciati, obliterati da cinque
secoli?

Eccoci qua, noialtri, rinserrati in Stati e manipolati
da forze politiche che praticano la virtù massima della macelleria
sociale all’interno e del colonialismo subimperialista verso terre e
genti già predate nei secoli e ora da riconquistare e spopolare col
terrorismo. Eccoci qua, corruttori di menti e sfruttatori di corpi,
rapinatori e devastatori dell’ambiente, ammaestrati da cosche criminali
a cavare qualche detrito di vita e di benessere dal genocidio degli
altri e dal taglio delle gambe ai nostri pari. Eccoci qua che sulla
tessera dei “Giovani Comunisti”, sedicenti tali forse da sempre, fieri
e ottusi mettiamo la foto di chi smantella il muro di Berlino regalando
ai vampiri del capitalismo quel milione di morti ammazzati dal “libero
mercato” nei paesi dell’Est. Mica ci hanno messo il muro lungo il Rio
Bravo contro cui si infrangono le vite di chi dai costruttori di quel
muro ha avuto solo la scelta di morire nella terra da loro
saccheggiata, o fucilato da ronde di tipo padano lungo il confine. Né
ci hanno dipinto quell’altro muro dell’apartheid che punta a
disintegrare definitivamente, chiudendolo in riserve indiane, il popolo
che di quella terra è il legittimo titolare. E neppure qualcuno ha
messo sulla sua tessera di rivoluzionario la muraglia invisibile dei
necrocrati che, vista l’impossibilità di ricostruire il vecchio
lupanare, vorrebbero allargare la loro Guantanamo a tutta Cuba. Cuba, e
poi i suoi succedanei in Venezuela e Bolivia, hanno rotto i rapporti
con lo Stato Canaglia israeliano e hanno invitato il mondo civile a
condannare “i criminali massacri e a mobilitarsi per esigere
l’immediata cessazione degli attacchi contro la popolazione civile
palestinese, rinnovando solidarietà e sostegno indefettibili al
sofferente ed eroico popolo palestinese”
. Qui ci si balocca con codarde e indecenti equidistanze tra chi, prima di farsi eliminare, tira due razzi di latta e il “popolo della Shoah che si difende”. Ci
dividiamo tra le due bande del partito unico che, in ottemperanza agli
interessi della criminalità organizzata, indigena e imperialista,
manifestano il massimo della convergenza delinquenziale nella
complicità con olocausti più estesi nel tempo e più definitivi nella
soluzione di quello che si pretende essere l’unico. E ci permettiamo di
assistere dalla finestra alla gogna di un conduttore televisivo che,
unico nella bolgia dei rinnegati, bugiardi e cospiratori, ha mostrato di che lacrime grondi e di che sangue la “democrazia” israeliana.

Su
Cuba, grazie alla demenziale manomissione inflitta al clima di tutti
dalla cieca voracità di pochi, si abbattono cicloni cui non si può
impedire di stritolare case, campi, fattorie e fabbriche, ma ai quali
la rivoluzione sottrae i sacrifici umani che decimano le popolazioni di
tutti i paesi coinvolti, compresi gli Usa. Da noi frane, alluvioni,
bufere, mareggiate ci lasciano inermi e nudi ai piedi dei fortilizi dei
potenti. Basterebbe l’antimperialismo dei saggi cubani, filo rosso che
attraversa ogni momento di questi 50 anni e che è il più convincente
esempio della possibilità e della necessità della fratellanza umana,
per impegnare ogni essere raziocinante e giusto alla difesa di Cuba e,
come diceva il Che, alla lotta hasta la muerte su tutti i
campi di battaglia del mondo. Qui di Guantanamo ne sopportiamo
serenamente tante che metastizzano le regioni di mezzo paese. Non solo.
Ce ne facciamo utilizzare per riprodurre in giro per il mondo le rapine
e le carneficine che Mussolini faceva da solo o al seguito di Hitler.

Siamo
dovuti andare a Cuba, e poi a Caracas e a La Paz, per farci trarre
dalla nebbia tossica dello scontro di civiltà a base di guerra al
terrorismo, per farci illustrare in modo inoppugnabile quale sia il
terrorismo nel mondo e chi ne sono i promotori e piloti. E grazie a
Cuba – e a pochi isolati “complottisti” in Occidente, esecrati
addirittura dalla sinistra – che si è lacerato il mostruoso inganno del
“terrorismo” diventato, con la speculare frode della “democrazia” e
della “sicurezza”, “l’ascia di guerra per lo scontro di civiltà, la bandiera delle spedizioni di conquista”
e della ricostituzione di una dittatura borghese che, nella morsa della
sua crisi, si propone di diventare la più spietata di tutti i tempi.

Nei giorni scorsi è apparso sui giornali di sinistra un megadocumento intitolato, con involontaria ironia, “Ritorno al futuro”
e firmato da una caterva di illustri detriti dell’”Arcobaleno”, con in
testa la masnada poltronara e di pura fuffa del vendolismo. Se i
padroni vicini e lontani sognavano una rassicurazione strategica,
questo lieve programmino socialdemocratico, che parte, sì, dal basso,
ma dalla bassa politica, glie l’ha garantita. Stato sociale, certo, l’egida dell’ONU per la salvaguardia dell’ambiente e del rapporto produzione-riproduzione della forza lavoro, come no, regole contro gli abusi finanziari, perbacco, interventi pubblici nell’economia, già li fanno Tremonti e Brunetta, l’utilizzo a pieno (da parte di chi?) delle capacità e competenze formate dalla scuola e dall’università, come dice Gelmini, mobilità collettiva e individuale,
come detta Fiat, e bla bla bla. Peccato che questi neoprodiani si siano
dimenticati dell’imballaggio in cui tutti i bei propositi vanno a
essere chiusi: l’imperialismo. Termine non trendy, lo so, ma
credono davvero questi profeti delle compatibilità e della nonviolenza
che si diano rapporti capitale-lavoro non vampireschi, salvaguardie
dell’ambiente, emancipazione dei deboli e delle donne, immigrazione
accettata e onorata, quando si è parte integrante di un meccanismo
planetario di dominio, sfruttamento e distruzione, di deumanizzazione,
come è quello del capitalismo al suo apice imperialista? Molti di
costoro hanno votato per l’assalto a popoli poveri e inermi, nessuno di
loro parla più di Nato e delle basi nella colonia Italia, non ci si
cura del fatto che a tirare le fila dei veltrusconi (fra un po’
chiederò le royalties per il termine) ci sono i burattinai a
stelle e striscie, tutti schizzano la lotta dell’effettivamente
equivoco (ma che c’entra?) Di Pietro contro il rullo compressore
piduista-fascista che frantuma libertà e diritti.

Le luci da
Cuba denudano i re e i loro corifei. La storia vissuta a Cuba è la
prima a darci lezioni per il presente. Grazie a essa possiamo capire il
prezzo, le difficoltà, gli arretramenti e le conquiste di libertà come
ideale concreto, la forza e la fragilità delle utopie, la precarietà
delle fede quando è indiscussa e sterilmente superba, il carattere
insaziabile della libertà. Da essa ci viene la lezione del’irriducibile
resistenza al colonialismo, politico, economico, culturale.

A
Cuba abbiamo dovuto lottare contro due colonizzazioni, quella del
capitalismo e quella del socialismo detto reale. Queste colonizzazioni
richiedono l’esercizio del pensiero critico collettivo. Per favorire
questo pensiero, senza il quale non è possibile rompere con la cultura
del capitale, occorre riformulare il tipo di potere che costruiamo in
tutte le nostre relazioni sociali: il potere tra figli e genitori, il
potere tra maestro e alunno, il potere tra Stato e popolo… Siccome
vogliamo il socialismo, dobbiamo riscoprirlo nell’organizzazione della
produzione, nel lavoro libero e associato, sociale, cooperativo e
autogestito, nella forma in cui il discorso sociale deve essere
inserito nel discorso politico, nella consapevolezza che all’inizio di
tutto sta la sconfitta dell’imperialismo, condizione perché
l’eliminazione dello sfruttamento sia l’eliminazione della povertà, ma
anche dell’alienazione, come voleva il Che Guevara”.
Così
parlarono a Fidel Castro Ariel Dacon, Julio Antonio Fernandez, Julio
César Guanche, Diosnara Ortega, studenti dell’Università dell’Avana.
Gente che ci auguriamo si possa presto vedere al timone della
rivoluzione. Gli anziani, per quanto gloriosi, veterani della
rivoluzione che alle ultime elezioni sono tornati a occupare l’intero
governo cubano, se ne possono fidare.
Posted in Generale | Comments Off on CON CUBA SENZA SE E CON QUALCHE MA NEL 50° DELLA RIVOLUZIONE PIU’ BELLA (di Fulvio Grimaldi)

GAZA, NON SI UCCIDONO COSI’ ANCHE I CAMMELLI? (di Fulvio Grimaldi)


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Non
esiste qualcosa come un popolo palestinese. Non è che siamo venuti, li
abbiamo buttati fuori e abbiamo preso il loro paese. Essi non
esistevano.

(Golda Meir, Primo Ministro di Irsaele, Sunday Times, 15/6/1969)
 
Dobbiamo espellere gli arabi e prendere il loro posto.
(David Ben Gurion, 1937, “Ben Gurion and the Palestinian Arabs”, Oxford University Press)
 
I palestinesi saranno schiacciati come cavallette…le teste spaccate contro le rocce e i muri.
(Yitzahak Shamir, Primo Ministro, “New York Times”, 1/4/1988)
 
Non c’è sionismo, colonizzazione o Stato ebraico senza l’espulsione degli arabi e la confisca delle loro terre.
(Ariel Sharon, ministro degli esteri, “Agence France Press”, 15/11/1998)
 
Israele
ha il diritto di processare gli altri, ma nessuno ha il diritto di
mettere sotto processo il popolo ebraico e lo Stato di Israele
.
(Ariel Sharon, Primo Ministro, “BBC Online”, 25/3/2001)
 
Dobbiamo
usare il terrore, l’assassinio, l’intimidazione, la confisca delle loro
terre, per ripulire la Galilea dalla sua popolazione araba. C’è bisogno
di una reazione brutale. Se accusiamo una famiglia, dobbiamo straziarli
senza pietà, donne e bambini inclusi. Durante l’operazione non c’è da
distinguere tra colpevoli e innocenti.

(Ben Gurion, 1967)

Seguendo
le istruzioni di questo “padre della patria” soldati israeliani
entrarono in una casa di Gaza e alla madre di dieci figli intimarono di
sceglierne cinque da “offrire in dono a Israele”. La donna urlava in
preda al terrore. Le fu ripetuto l’ordine e che, se non avesse fatto la
scelta, l’avrebbero fatta i soldati per lei. Poi cinque dei suoi
bambini le furono ammazzati sotto gli occhi
.

Per
la frustrazione di non essere riusciti a penetrare nella città di Gaza
neanche per pochi metri, Israele mirò al Giardino Zoologico in
periferia. Missili aprirono voragini di trenta centimetri negli
animali. Altri furono giustiziati a bruciapelo. I primi su cui si
accanirono i fucilatori israeliani furono i leoni.

Scrivo
queste note il 27 gennaio, ma è come se mi trovassi nell’occhio di un
ciclone: bambini spezzettati da schegge e pallottole, neonati che
l’inestinguibile fosforo brucia fino al midollo, un oceano di macerie
frugato da chi è sopravvissuto all’ecatombe dell’intera famiglia,
ospedali sepolti sotto troppi corpi lacerati, una terra che non basta
più ad accogliere sepolture, un lungometraggio di estinzioni da
patologie programmate per uccidere nel tempo, un capolavoro assoluto di
ferocia genocida… tutto sommerso, annichilito dall’uragano del “Giorno della memoria”.
Lo capeggia, in Italia, il capobranco statale dell’inversione della
colpa, con altosonanti 200 parole contro “l’antisemitismo”, che
appartiene semmai a quattro ultrà fascisti, utili alla diversione, con
l’indefettibile consacrazione della legittimità dello Stato ebraico e
con il silenzio tombale sulla legittimità del diritto alla vita dei
palestinesi, peraltro tutti semiti. Davanti ai bianconeri degli
scarnificati di Auschwitz, ai dolenti ricordi dei sopravvissuti, alla
pubblicazione e ripubblicazione delle testimonianze, alle pensose
riflessioni sul “male assoluto”, alle cerimonie di notabili altissimi o
bassissimi, ai pellegrinaggi ai luoghi dell’”unicità” del dolore,
all’inaugurazione di monumenti, targhe, lapidi e musei, in ecumenica
sintonia tra ogni fede, cultura e politica, i bambini di Gaza sono
scomparsi, annegati, riammazzati. E, insieme a loro, anche le vittime
di quei lager e di quelle persecuzioni, offesi a morte dalla più
ipocrita delle strumentalizzazioni. Nessuno mi toglie dalla testa che
gli psicopatici del terrorismo di Stato abbiano programmato i tempi
dell’olocausto di Gaza in modo da farlo subito sparire sotto la
scadenza di quell’altro. Sono passati meno di dieci giorni dalla
momentanea fine della mattanza, ma la Shoah ha già fatto chiudere il
libro della propria replica.

In
calce a questo articolo potrete trovare la petizione da firmare per
l’incriminazione di Israele davanti alla Corte Penale Internazionale
per crimini di guerra e contro l’umanità
.

Cito dal “manifesto”, giornale comunista, che titola esaltato nel giorno dell’incoronazione di Barack Obama: “Comincia l’era dello smart (intelligente, illuminato) power” , oppure, “E l’America cambia rotta” : L’astro
politico di Berlusconi è destinato a tramontare nella svolta politica,
geopolitica e culturale che l’elezione di Barack Obama imprime a ciò
che negli ultimi decenni si è configurato come l’ordine egemonico del
discorso occidentale… E’ auspicabile e prevedibile che di qui a poco il
vento del cambiamento che spira dall’altra sponda dell’oceano si farà
sentire… Con l’elezione di Obama questo contesto internazionale, questa
onda che ha disegnato il profilo di un’epoca sono finiti… Si tratta di
percepire, registrare e interpretare questo cambiamento dell’epoca,
questo smottamento di egemonia, questa nuova energia…. L’incubo è
finito
(Ida Dominijani, 23/1/09). Non c’è dubbio che i primi
provvedimenti di Obama hanno già dato il segnale del cambiamento sia in
politica interna che in politica internazionale. E questo va ben oltre
il valore simbolico della novità razziale… La novità antropologica
segnerà sicuramente la fine del razzismo all’interno della democrazia
statunitense… Il day one di Obama è stato molto promettente… Quanto
alla politica estera, Obama si è subito occupato della questione
palestinese prendendo contatto con Olmert, Abu Mazen, Mubaraq e
Abdallah II… Gli Stati Uniti non dovranno più operare sul piano
internazionale come una potenza imperiale legibus soluta…(
Danilo Zolo, 23/1/09). La
lista degli atti simbolici che Obama ha compiuto… rappresenta un
completo ripudio di otto anni di amministrazione Bush… e qui era palese
che il nuovo presidente era arrabbiato non solo con i repubblicani, con
i petrolieri, con i banchieri di Wall Street, ma anche con i suoi
concittadini, con il partito democratico…L’unica speranza degli Stati
Uniti di uscire dalla crisi consiste quindi nelle capacità di
leadership di Obama, quella misura di carisma personale, chiarezza
intellettuale e fedeltà ai propri valori che si trova solo nei grandi
dirigenti… Obama sembra avere le qualità richieste ai leader: ispira
fiducia, mostra compassione per i più deboli, promette stabilità e
speranza… gli americani continueranno a guardarlo come qualcuno in
grado di camminare sulle acque e di moltiplicare i pani e i pesci.
(Fabrizio Tonello, 25/1/9).

ISRAELE, OBAMA E LE SINISTRE ORGASMATICHE
Sono
bastate, nel discorso inaugurale, due banalità retoriche su “ideali”,
“valori”, “padri fondatori” del nero delegato da Wall Street e dal
complesso militar-industriale, per scatenare questI osanna sgocciolanti
bava. La delirante apertura di credito a un personaggio cui si
attribuiscono, nella peggiore deformazione della personalizzazione di
un potere che l’elite capitalista Usa attribuisce
organicamente, controllando ogni suo respiro, al fantoccio di turno,
rivela brutalmente il coacervo di colonialismo mentale, ignoranza,
dabbenaggine, fideismo, culto del leader, che rendono la sinistra
ufficiale italiana, e non solo quella ufficiale, il pateracchio
ineffettuale e ontologicamente subalterno che da decenni annichilisce
ogni istanza di cambiamento. Coloro che hanno tutto da perdere da
questo come da qualsiasi altro gruppo dirigente imperialista, che tutti
senza eccezione si pongono l’obiettivo di mantenere e potenziare il
dominio Usa e capitalista sul mondo con lo strumento della “guerra al terrorismo”,
cioè a tutti noi, subiscono da questi corifei un disarmo unilaterale e
si ritrovano proiettati nel vuoto dell’inconsapevolezza, impiccati a
batuffoli di rosee illusioni. A questi “sinistrati” si accodano
equilibrati equilibristi che, come tale Gennaro Carotenuto di
“Giornalismo partecipativo”, regalano al bianchissimo annerito
neo-eletto, confermatosi “combattente contro il terrorismo globale” e
accentuatore di tutte le guerre Usa in corso, finanziato come nessuno
mai prima dai criminali della finanza predatrice (subito salvati dalla
loro bancarotta fraudolenta), “nessun pregiudizio, né positivo, né negativo”, aggiungendo che non ci si può non emozionare col cuore per un appuntamento così con la storia.
Aggiungiamo poi la scomparsa del dato imperialistico, della guerra,
delle basi Usa, della Nato d’assalto e di sterminio, dalle analisi e
dai propositi di praticamente tutti gli aggregati di sinistra che,
pure, negli anni recenti si erano mobilitati contro l’innesco della
guerra infinita e permanente in Jugoslavia e Iraq. Il Forum Sociale
Mondiale di Belem, Brasile, ormai frequentato soltanto da
veteroumanitaristi e ong insaziate, alla sua ennesima e sempre più
insignificante adunata a difesa dei “beni comuni”, ha espunto dai suoi
temi questi aspetti che, pure, sono lo strumento primario per
l’annientamento dei beni comuni e dei diritti umani, limitandosi a
pettinare la testa di Medusa del libero mercato. Quanto ancora si agita
in direzione antagonista tra le macerie dei partitini comunisti,
probabilmente sopraffatto da un’incombenza temuta troppo onerosa alla
luce delle sconfitte subite da Belgrado a Baghdad e a Kabul, costruisce
il suo agire politico intorno a capisaldi degnissimi come il lavoro, il
territorio e l’ambiente, l’istruzione, ma confina l’elemento
“internazionale”, nonchè internazionalista, in una sottovoce del
capitolo “analisi, cultura e teoria”. Alla presentazione di
un nuovo sito-agenzia d’informazioni alternativo con la pretesa di
neutralizzare gli effetti tossici dell’informazione di regime e andare
oltre “il manifesto” e fogli analoghi, una dozzina di interventi di
protagonisti delle rispettive situazioni ha sviscerato ogni possibile
contenzioso tra lavoratori e padroni, ma non ha mormorato una parola
tipo “guerra”, “imperialismo”, “geopolitica”, “internazionalismo”.
Rassicurati da Barack Obama? Ci pensa lui a togliere dall’ordine del
giorno quello che fino a ieri alle sinistre di tutto il mondo era parso
la condizione sine qua non – oltre che un fondamentale
imperativo etico – per unire le forze dell’umanità vessata e
soggiogata, oggi addirittura votata a una liquidazione da “soluzione
finale”, nel contrasto all’imperialismo, alla matrioska che genera e
contiene ogni forma di oppressione. Fa il paio questa trascuratezza
cieca e autolesionista con la sufficienza con cui si lascia a un Di
Pietro, a un Travaglio, il monopolio della difesa della legalità, del
diritto, dell’uguaglianza davanti alla legge, stritolati dal tritacarne
della cosca al potere. Ma come, scaldarsi per giudici come De
Magistris, Forleo, Apicella, messi all’indice (poi magari al muro come
Falcone e Borsellino) e travolti da una diffamazione peggio di Saddam,
per aver toccato la coda del malaffare mafioso che ci governa,
consapevoli che quei principi di diritto erano le conquiste di civiltà
e di emancipazione da abusi gerarchici che avevano tratto lavoratori,
donne, bambini, anticonformisti di ogni razza dai sottoscala della
società? Si rischiava la deriva, l’onta, del “giustizialismo”, non sia
mai! Nel famoso racconto di quelli che vengono a prendere prima gli
zingari, poi i giudei, poi i comunisti, oggi anche gli immigrati,
l’ultima categoria da liquidare è sicuramente quella dei giudici non
comprati (come quelli del CSM capeggiati da un Mancino emerso, guarda
un po’, dalle indagini di De Magistris). Poi ci siamo noi, nudi e
crudi. In questo mondo di ciechi non c’è neanche l’orbo…

E’ nel
nome dei bambini inceneriti e delle donne e degli uomini massacrati a
Gaza che si devono svergognare questi pendagli da quattro stereotipi
polverosi, questi fabbricanti di ipnosi della fiducia malriposta e
della speranza votata alla depressione. Si è voluto giustificare il
silenzio di Obama ante-insediamento sulla carneficina ipernazista in
corso a gennaio, perché “in Usa non ci possono essere due presidenti”.
Sorvolando leggiadri sulle abbondanti e risolute dichiarazioni che però
il presidente eletto rilasciava su Iraq, Iran, Afghanistan e universo
mondo. Dal sangue e dalla materia cerebrale tra i calcinacci di Gaza,
ci sollevavano le alate e ineguagliabili frasi su libertà, speranza,
cambiamento, pace e la perenne grandezza del popolo americano. Compiuto
l’insediamento, fedelissimo all’impegno preso in campagna con l’ AIPAC
(Comitato per gli Affari Pubblici Israelo-americani), la più virulenta
delle lobby ebraiche, Obama ha però subito dichiarato alla grande: “Sia
chiaro, l’America è impegnata per la sicurezza di Israele e sosterrà
sempre il diritto di Israele di difendersi da ogni minaccia. Per anni,
Hamas ha lanciato migliaia di razzi contro cittadini israeliani
innocenti. Nessuna democrazia può tollerare tali pericoli per il suo
popolo, né dovrebbe tollerarli la comunità internazionale… Hamas deve
soddisfare indiscutibili condizioni: riconoscere il diritto di israele
a esistere, rinunciare alla violenza, ottemperare ad accordi conclusi,
terminare il lancio di razzi e gli Stati Uniti con i suoi partner
sosterranno un’ efficace azione di interdizione e contro il
contrabbando che impedisca il riarmo di Hamas… ne saranno garanti le
autorità internazionali e quella palestinese… Ogni assistenza alla
ricostruzione dell’economia palestinese sarà fornita esclusivamente
all’Autorità Nazionale Palestinese e verrà da questa diretta.
Così
parlò Obama, e sulla pelle dei bimbetti di Gaza le fiamme del fosforo
bianco ancora non si erano spente. Nè ara finita un’occupazione di
sessant’anni, nè si era asciugato l’inchiosto delle 30 risoluzioni ONU
sbeffeggiate da Israele. E’ naturalmente un’altra cosa, per i
quaquaraquà sinistrati, se queste infamie le producono i Fini, i
Veltrusconi, o altri parvenu del sottimperialismo cialtrone nostrano.
Ci penserà il nero miracolista del cambio a sistemarli…

L’Autorità
Nazionale Palestinese è quella conventicola di prostitute, prosseneti e
ladroni, allevata, ahinoi, da un Arafat in piena senescenza, che a suo
tempo Marwan Barghuti, con la nuova generazione di Fatah nata
dall’Intifada, aveva tentato di neutralizzare, e che, perse le elezioni
del 2006, con il satrapo e agente della Cia Mahmud Dahlan aveva tentato
un colpo di Stato contro il legittimo governo di Hamas, golpe
anticipato dalle forze di sicurezza di Hamas. Aveva poi cercato di
rimediare il democratico Israele con una serie di assassinii mirati e
incarcerando senza processo una sessantina di deputati di Hamas.
L’affidamento degli aiuti, dei finanziamenti e del comando ai gangster
collaborazionisti dell’ANP di Abu Mazen è ovviamente la dote concessa
alla mignotta palestinese per avere fin dal primo giorno dell’attacco
attribuito ogni responsabilità a Hamas, per aver represso con mazzate e
carcere ogni manifestazione di solidarietà alle vittime di Gaza in
Cisgiordania, per aver fatto nei territori occupati il lavoro sporco di
Israele, esattamente come lo Judenrat, il Consiglio Ebraico, ai tempi
del suo accordo con i nazisti per il trasferimento degli ebrei in
Israele. Non c’è una parola di Obama che non avrebbe potuta essere
detta da Bush: parole che sulle ferite dei sopravvissuti della
macelleria di Olmert a Gaza devono aver avuto l’effetto di una tintura
di acido solforico. Come per Condoleezza Rice e Hillary Clinton, le
arpie cannibali dell’elite statunitense, anche per Obama è da
addossarsi ai palestinesi l’onere della prova di essere degni del
genere umano, degni di aver rivolta la parola da Tsipi Livni e, domani,
dall’Obersturmbannfuehrer Netaniahu. La posizione di Barack
Obama sulla questione palestinese è dirimente, specie se la vediamo
inserita nell’immutato contesto della “guerra al terrorismo”,
dell’escalation in Afghanistan e Pakistan, del dichiarato mantenimento,
al di là della chiusura dell’ormai insostenibile Guantanamo (ma Bagram
e altre prigioni dell’aberrazione giuridica rimangono), del “Patriot Act”,
cioè delle infrastrutture da Stato di polizia erette dalla precedente
amministrazione, delle minacce al Venezuela di Chavez, del silenzio
tombale su 50 anni di embargo a Cuba e del fatto che nessun presidente
aveva mai rimpinzato il suo staff di tanti generali e ammiragli,
vessilliferi del complesso militar-industriale.

Imperialismo e lotta di classe. Partiamo dal gas.
C’è
un aspetto dell’aggressione israeliana a Gaza che si inserisce nella
strategia, elaborata dai fondatori del sionismo e dagli sponsor dello
Stato razzista e teocratico, di eliminazione al rallentatore del popolo
palestinese e dell’obliterazione della nazione araba. Aspetto
scrupolosamente occultato da chi blatera di antisemitismo, di
democrazia azzannata da terroristi, o, al meglio, di territori
disputati, ma che illustra come la rapina e la soluzione finale
praticate da Israele rientrino pur sempre nel classico schema della
lotta di classe e dell’imperialismo. Una cinica volontà di egemonia, di
dominio sui deboli, fino alla loro rimozione, di controllo delle
ricchezze del pianeta, alimentata da egoismo, razzismo, odio e
bigottismo. E’ la ragion d’essere di duecento multinazionali e duecento
milioni di miliardari, con la loro servitù politica e mediatica, che
ormai da anni (dalla caduta del muro?) possono condurre una lotta di
classe verso il basso confortata dal disarmo unilaterale degli
oppositori. Oppositori finti, conniventi predicatori della fine del
conflitto, dell’abolizione del concetto di “nemico”, della nonviolenza,
fino a agli ostinati, ottusi o scaltri, peroratori dei due stati per due popoli,
offerti a uno Stato colonialista che, dalla sua creazione in provetta
fino a Oslo e ad Annapolis, non ha assolutamente mai contemplato la
presenza di diritti nazionali palestinesi. E, quanto a quelli arabi,
non abbiamo che l’esistenza di regimi schiavisti asserviti agli
interessi e alla geostrategia occidentali.

Vi
hanno mai parlato dell’esistenza al largo della costa di Gaza, scoperta
nel 2000, di ampi giacimenti di gas il cui sfruttamento venne da
Israele concesso al Gruppo “British Gas”, alla “Consolidated Contractors"
del maronita libanese “Sabbagh & Koury” e al Fondo Investimenti
dell’ANP (per un misero 10%)? Guardate la mappa in testa al pezzo. La
licenza per lo sviluppo dei giacimenti, di cui il 60% sta nelle acque
territoriali di Gaza, e per la costruzione di un gasdotto, copre
l’intera area off-shore della Striscia. Il Gruppo “British Gas” ha già effettuato due perforazioni nel 2000, Gaza Marine 1 e Gaza Marine 2.
Le riserve di questi soli due pozzi sono calcolate in 500 miliardi di
metri cubi per un valore di 4 miliardi di dollari. Ma si stima che il
totale delle riserve palestinesi sia molto più ampio. Di fronte allo
stallo della situazione a Gaza, la “British Gas” risolse nel
2007 di concludere un accordo per pompare l’idrocarburo verso l’Egitto.
Sollecitato da Israele, intervenne l’allora premier britannico Tony
Blair per sventare tale soluzione. Successivamentem, il governo
israeliano si accordò con la “British Gas” per escludere dal
banchetto sia l’Autorità Palestinese, sia, tanto più, il governo di
Hamas. Il che sgretola l’assunto, universalmente recepito, di un Ariel
Sharon che si sarebbe ritirato da Gaza onde liberare un pezzetto di
Palestina dall’occupazione. Al controllo israeliano su questa ricchezza
energetica servivano meno seimila coloni in un mare palestinese, quanto
una Gaza assediata, decimata dal blocco, poi sterminata e distrutta al
punto da rendere insostenibile la permanenza della sua popolazione,
chiusa da tutti i lati e affidata all’occupazione di una forza
internazionale amica (vedi Unifil in Libano) sotto la nominale autorità
di un governicchio fantoccio di Abu Mazen.

L’olocausto di Gaza
non è l’eccezione alla regola perpetrata da uno Stato particolarmente
efferato. E’ la più profonda espressione della regola di un capitalismo
imperialista che pretende di governare il mondo in ogni suo aspetto. Le
periodiche esplosioni genocidarie in forma concentrata emanano dalle
norme che ne costituiscono la base. Se per un fenomeno non c’è base, il
fenomeno non viene ad esistenza. Le premesse sono quelle condivise da
ogni classe dirigente, feudale o capitalista, da ogni impero degli
ultimi due-tremila anni. Di fronte alla minaccia della sollevazione dei
dominati, della lotta di popoli o classi, ogni civiltà imperiale
determina di essere l’assassino piuttosto che l’assassinato, il
conquistatore piuttosto che il conquistato, il governante piuttosto che
il governato. Quello che rivediamo oggi è la ripetizione, da Ciro il
Grande (i greci!) a Augusto (i barbari!), da Andrea Doria (i mori!) a
Hitler (gli ebrei!), del trauma per cui una minaccia reale, o inventata
come nel caso delle Torri Gemelle e del terrorismo islamico, si
generalizza e penetra nella psicologia di individui e di intere
società, per produrre così uno stato di emergenza psico-culturale, una
vera nevrosi di massa: il 96% degli israeliani ha appoggiato la
macelleria di Gaza, il 45% chiede l’espulsione di tutti i palestinesi.
Furono più o meno le percentuali di appoggio, dopo l’11 settembre, per
le guerre infinite e globali ambite da una vacillante amministrazione
Bush-Cheney. Le ultime manifestazioni nostrane di una catena che il
sistema bipartisan estende in perversione antropologica, sono i pogrom
anti-immigrati e anti-rom che non hanno molto da invidiare alle
operazioni contro gli “scarafaggi arabi” da parte israeliana. Ma sono
anche le strategia di criminalizzazione dei giovani – studenti, tifosi,
baby gang, frequentatori di discoteche, “fannulloni” e “bamboccioni” –
di giorno in giorno intensificata da una gerontocrazia in crisi di
plusvalore. Così un presunto pericolo esistenziale corso da Israele,
fondato da decenni sull’irrealistica ma perpetua minaccia di un nuovo
olocausto ebraico, giustifica la creazione e ininterrotta espansione di
Israele e lo spossessamento e massacro del popolo palestinese. Tanto
grave appare quella minaccia da permettere qualsiasi crimine per
sventarla. E quindi vai con “l’antisemitismo”, vai con quella che il figlio di sopravvissuti dei lager, Norman Finkelstein, chiama “l’industria dell’olocausto”,
vai con le escursioni di scolaresche ad Auschwitz. Se ne ricava un
assegno in bianco per il genocidio dei “terroristi” palestinesi, per
coprire il quale si fa l’osceno e macabro uso delle povere vittime di
un orrore precedente. E’ guerra di classe, è imperialismo e se la
minaccia reale, di popoli insorti, di resistenze non domabili, di
insubordinazioni di classe, finisce con l’estenuarsi sotto i colpi
della ferocia repressiva, o per depravazione ideologica e stanchezza
strutturale, non per questo l’estrazione di valore da una forza lavoro
pauperizzata, o da un ambiente naturale dissanguato, si ricostituisce.
Per drenare quanto resta, prima della fine del mondo, occorrono 11
settembre, terroristi islamici, diversi e diasadattati di qualsiasi
ordine e tipo.

Gaza, un modello per la crisi
Un
altro elemento che l’assenza di lenti internazionaliste non fa rilevare
è quello, di rilevanza strategica universale, dei metodi israeliani
come laboratorio e modello per ogni aspetto della guerra esterna e
interna necessitata da un riconquista coloniale e sociale, a sua volta
imposta da una crisi senza orizzonti di ripresa e senza margini di
ammortizzazione per le classi e i popoli subalterni. Universalizzata la
qualifica di “terrorista” fino ad estenderla a chi marina le
elementari, o fa picchetti davanti a discariche, viene naturale
l’adozione dei mezzi repressivi che Israele ha così efficacemente
collaudato. Pensate che ci sia una bella differenza tra famigliole che
i soldati chiudono in casa per poi dargli fuoco col fosforo, e
politiche che sospingono la brava gente di Ponticelli o di Guidonia a
incendiare campi e vite, o tra il radere al suolo scuole e università,
e presidi che comunicano con sms i voti e le assenze ai genitori, o,
ancora, tra chi polverizza moschee e ospedali, e chi vieta le preghiere
altrui davanti alle nostre superiori chiese e fa degli ospedali
pubblici lebbrosai da Terzo Mondo per succhiare profitti da cliniche
private vampire? E’ solo una questione di quantità e di tempo.
Aspettate che la crisi si accentui, semini catastrofi umane e imponga
che entrino in campo i professionisti della repressione dei nostri
ministri di polizia e dell’Offesa, collaudati in scenari di carnai e
strazi bellici e animati dall’esempio dei più bravi di tutti, un
esempio che incontra comprensione e approvazione da quelli che fanno
opinione pubblica. Non saranno i bombardamenti al fosforo e all’uranio,
ma è già il gas CS, bandito dalle convenzioni perché distrugge il
sistema endocrino, o sono le esecuzioni giudiziarie di pallottole
partite per sbaglio, o che hanno incontrato un calcinaccio. Non saranno
le decine di migliaia di incarcerati senza colpa, senza processo e
senza difesa delle guerre ai “nemici combattenti”, ma già sono i campi
di internamento ed espulsione per immigrati e, nel Regno Unito e negli
Usa, anche per cittadini. Non saranno le torture legittimate (per
quanto Bolzaneto e Diaz e pestaggi sistematici di ogni capannello
frustrato…), ma sono già i rapimenti e le extraordinary renditions
di sospetti disturbatori. Non saranno l’annullamento del diritto di
informazione praticato con il divieto ai giornalisti di accedere a
scenari di guerra e sterminio, ma è già la soppressione delle voci e
dei fatti sgraditi da ogni mezzo d’informazione: in Inghilterra le due
emittenti maggiori, BBC e Sky, rifiutano di pubblicare caritatevoli
appelli alla raccolta di aiuti per i morituri di Gaza: rivelano uno “sbilanciamento filo palestinese”.
Chi ha sentito l’indignata protesta delle nostre associazioni
giornalistiche contro lo sconcio delinquenziale della faziosità
mediatica su Gaza? Non sarà l’imposizione a una popolazione
recalcitrante di regimi autoritari e corrotti di collaborazionisti, ma
può benissimo essere l’affidamento di intere regioni del paese al
controllo e agli abusi della criminalità organizzata. e il resto ai
ratti della P2. Non sarà la cancellazione dalla faccia delle Terra di
culture fastidiosamente aliene e non riconducibili alla norma, ma è già
la demonizzazione ed espulsione di culture politiche non integrabili e
di culture etniche intellettualmente ed economicamente concorrenziali:
a Lucca vengono banditi i ristoranti etnici e quelli che non esibiscono
un “arredo elegante e in linea con le tradizioni locali”. Non
sarà neppure la negazione di ogni pur minima parvenza di sovranità
statale ai palestinesi, ma sono basi militari, accordi più o meno
segreti, monitoraggio e dettato Usa su ogni decisore politico indigeno,
la Nato, le 90 bombe atomiche, Mossad e Cia nell’attico dei nostri
servizi. E’ dal 1945 che la classe dirigente si è venduta la sovranità
nazionale e nessun sinistro lo ricorda più: non vennero a liberarci?
Più o meno così hanno liberato iracheni e palestinesi. E se
sessant’anni di indottrinamento razzista, di de-umanizzazione dei
palestinesi e, implicitamente, di se stessi, di satanizzazione delle
vittime, hanno prodotto un 96% della società che approva l’uccisione di
1500 palestinesi, aspettate cosa produrrà fra poco il belusconismo e
suo cugino, il veltrusconismo. I Fede, i Riotta, i Mieli, gli
autorevoli rappresentanti delle istituzioni rese impunite da leggi e
costumi, hanno preparato la società ad accettare questi massacri con il
solito karma dell’ “autodifesa”. Con Israele consacrata
all’esenzione da ogni limite umano e di diritto, con la nave da
battaglia Usa incoronata dalla polena di un presunto taumaturgo o
messia, davanti a cui tutti si levano i pantaloni, beh allora… son
cazzi nostri.

Senza una consapevole epistemologia delle
dinamiche del capitalismo e dell’imperialismo non si riesce e percepire
la realtà che oggi fronteggia l’umanità, la totale coerenza e
continuità tra oppressione di classe, genocidio ed ecocidio e il modo
in cui la fenomenologia di una civiltà necrocratica fluisce nei
torrenti, nei fiumi e nel mare della morte planetaria. Altro che Obama,
altro che “antisemitismo”. I 1500 palestinesi trucidati a
Gaza, le migliaia di mutilati e avvelenati dal fosforo e dall’uranio
per un’agonia protratta nel tempo, sono, come scrive Lorenzo
Dellacorte, il sacrificio umano immolato sull’altare del capitale.

Nessuno
lo ha capito meglio dei palestinesi, degli iracheni, degli afghani, dei
latinoamericani in marcia. Come diremo più avanti, a Gaza Israele non
solo non ha vinto, non ha raggiunto gli obiettivi conclamati, ha dovuto
ripiegare come in Libano e affidare ai soci della criminalità
organizzata occidentale il compito dell’esecuzione. Ma ha perso. Lo
specchio si è infranto. L’attende un tribunale criminale invocato da un
uragano di voci che sta per soverchiare lo tsunami della farsa
vittimistica ebraica. E prima ancora di quella giuridica, lo sta
processando l’alta corte della coscienza umana.

Israele deve essere giudicato dalla CPI – Petizione universale

CAMPAIGN

Sign at the bottom of page

Israel must be judged at the International Criminal Court – Universal petition

Approximately
300 among NGOs and associations ask the Prosecutor of the International
Criminal Court to open an investigation on the war crimes committed by
Israel in Gaza. Our support is indispensable. Sign and circulate this
urgent «universal petition».

To the Prosecutor of the International Criminal Court (ICC)
Law
is the distinguishing mark of human civilisation. All progress made by
humanity coincides with the consolidation of rights. The challenge that
Israel’s aggression against Gaza poses to us consists in affirming,
when confronted with such great suffering, that the response to
violence is justice.
War crimes? Only courts are able to bring about
a sentence, but all of us can bear witness, because a human being only
exists in his relationship with others. The circumstances show the
breadth of their dimension in Article 1 of the Universal Declaration of
Human Rights of 1949, «All human beings are born free and equal in
dignity and rights. They are endowed with reason and conscience and
should act towards one another in a spirit of brotherhood.»
The
protection of populations, and not only of States, is the reason why
the International Criminal Court exists. A population without a State
is the most threatened of all, and before History, they are placed
under the protection of international bodies. The most vulnerable
populations must be the most protected. Killing Palestinian civilians,
the Israeli armoured tanks have caused humanity as a whole to bleed. We
have been insisting that the power of the Prosecutor be put at the
service of all the victims, and this task must allow that the entire
world receives a message of hope, that of the construction of
international rights based on human rights. And together, one day, we
can pay homage to the Palestinian people for the contribution that they
have given to the defence of human freedom.

Campaign begun on 19/01/2009

MORE INFORMATION

If you wish to express your solidarity with this campaign, please complete the following:
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Posted in Generale | Comments Off on GAZA, NON SI UCCIDONO COSI’ ANCHE I CAMMELLI? (di Fulvio Grimaldi)

ARMI PROIBITE: FOSFORO, DIME, URANIO, LUCIA (di Fulvio Grimaldi)

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Fosforo Bianco su Gaza

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                        
 
 
La Grande Bugia è una bugia
 così enorme da far credere alla gente che nessuno potrebbe avere
l’impudenza di distorcere la verità in modo così infame.
 (Adolf Hitler, “Mein Kampf”)
 
La
proprietà di un gentile (non ebreo), secondo la nostra legge, non
appartiene a nessuno e il primo ebreo che passa può prendersela
.
(Talmud, Schulcan Amen 156)
 
Non è permesso derubare un fratello, ma è permesso derubare un non ebreo.
(Levitico XDC,13)
 
Un ebreo può mentire e spergiurare per condannare un non ebreo. Il nome di Dio non è profanato quando si mente ai cristiani.
(Talmud, BabaKama, 113a, 113b)
 
Tutti i non ebrei sono solo degli animali, quindi tutti i loro bambini sono bastardi.
(Talmud, Yebamoth, 98°)
 
Anche il migliore dei Goyim (non ebrei) dovrebbe essere ucciso.
(Talmud, Abhodah Zarah, 26b)

Il Talmud è il libro-guida degli ebrei.
1500
uccisi in 22 giorni (di cui solo 95 combattenti), con altri da
recuperare da sotto le macerie, 5.600 feriti, di cui gran parte
morituri per ferite incurabili, 1 milione mezzo contaminati dalle bombe
all’uranio, 22mila case demolite, 220mila persone senza tetto, tutte le
infrastrutture per la vita distrutte. Questi i numeri dell’eroico,
moralissimo, quarto esercito del mondo nella sua guerra contro un
popolo inerme, affamato, minato nel corpo e nello spirito, privato di
tutto da mesi, che lancia razzi di latta e fa qualche buco nella sabbia
o nei muri. E lo fa DOPO che l’aggressore di sempre aveva bloccato la
vita di tutta una popolazione per 18 mesi e infranto la tregua il 4
novembre uccidendo sei palestinesi a Gaza. Questi i numeri da sempre di
noialtri civilizzati che, dal “nuovo mondo” da rapinare e ripulire di
gente indigena, al Congo dei 20 milioni trucidati da Leopoldo I, dal
Vietnam napalmizzato all’Iraq uranizzato, sappiamo tecnologicamente
uccidere a distanze irraggiungibili da nemici con frecce e kalashnikov.
Così i mitici combattenti di Tsahal hanno potuto radere al suolo
l’intera Gaza, senza rischiare di arrivare a tiro dei moschetti
palestinesi. E tuttavia hanno perso e sono dovuti andar via senza aver
raggiunto lo scopo dichiarato: eliminare la Resistenza, fargli
rivoltare contro il popolo. Così i prodi occupanti della Cisgiordania
sanno fucilare ragazzini, prima che gli arrivi il loro sasso. Per
tentare di schiacciare questo popolo in una tenaglia di morte e
sottommissione, la quarta potenza militare del mondo ha lanciato da
aria, terra e mare un ininterrotto tsunami di morte a base di armi
proibite.

Quello che i Mengele israeliani combinano con queste
armi l’avevo visto con i miei occhi nel laboratorio Libano, estate
2006, insieme al Dr. Ibrahim Faraj dell’ospedale di Tiro, rimasto nel
suo ospedale mentre gli psicopatici di Tel Aviv lo tempestavano di
ordini di andarsene e polverizzavano i dintorni (vedi il mio Gaza, Baghdad, Beirut: delitto e castigo,
Malatempora ed.). Ragazzi in fiamme inestinguibili da fosforo bianco,
interni di persone maciullati da DIME(Dense Intensity Metal Explosive),
gambe stroncate da bombe a grappolo, necrosi inarrestabili da armi
chimiche. E il Dr. Ibrahim amputava, amputava, fino a che non c’era più
nulla da amputare. La guerra era persa, i sadici vigliacchi erano stato
respinti nel loro Stato razzista, teocratico, monoetnico, ma la
tecnologia Usa fornita all’avamposto imperialista in Medio Oriente
aveva vinto la sua scommessa. Si poteva procedere con Gaza.

Su
questo sfondo va vista l’esibizione di Lucia Annunziata nella
trasmissione “Anno Zero” dell’8 gennaio 2009, quando si lanciò contro i
corpi frantumati dall’infanticidio di Gaza, mostrati da Michele
Santoro, urlando improperi sull’impostazione “filopalestinese”
dell’unico giornalista che aveva osato far vedere ciò che l’intera
ciurma del giornalismo italiano aveva occultato. Già era successo con
Santoro ai tempi dell’aggressione alla Jugoslavia, quando un premier
italiano, criminale di guerra e violatore della Costituzione, si
precipitò a frantumare Belgrado e, addirittura, il Kosovo “da salvare”
da una fittizia “pulizia etnica” del fittizio “dittatore” Milosevic.
Una trasmissione dal Ponte Branco della capitale serba che lacerò i
pudichi veli con i quali i corifei dell’ ”intervento umanitario”
avevano coperto i massacri. Anche lì ci si accanì contro i bambini: non
solo bombe a grappolo che sembrano balocchi o biscotti, ma, come
mostrarono i miei documentari girati in quei giorni (Il popolo invisibile, Serbi da morire, Popoli di troppo),
bombe intelligentemente mirate a bloccare il funzionamento delle
incubatrici negli ospedali, bombe su scuole e asili. Togliere di mezzo
l’infanzia è lo strumento per eliminare popoli di troppo.

Lucia
Annunziata la conosco bene. Sul finire degli anni ’90 ci capitò tra
capo e collo come direttore del TG3. Si mormorava che la sua marcia
trionfale dal “manifesto” alla "Repubblica" e al "Corriere della Sera",
per progressivi spostamenti di degrado professionale, fosse su vetture
Fiat con alla guida lo sbruffone Nato con i baffetti. Arrivò con la
testa cinta di allori sionisti per aver battuto i marciapiedi di tutto
il Medio Oriente drappeggiata nel vessillo con la stella di Davide. Da
noi durò poco. I suoi epiteti volgari all’indirizzo di colleghi
convinti di far parte di una categoria degna di rispetto, le sue
astruserie redazionali, la sua abissale incompetenza, i suoi bollori
ormonali, le dovevano fisiologicamente aprire la strada verso qualche
vertice nella mafirepubblica delle mafibanane, nella fattispecie la
presidenza Rai, ma non la salvarono da una sollevazione senza
precedenti di tutto il corpo redazionale, conscio di quel minimo di
dignità che la testata conservava rispetto alle altre. Ne conservo un
ricordo che ne anticipa qualità poi impostesi all’ammirazione di tutto
il cucuzzaro nazionale filoisraeliano quando, in “Anno Zero”, si
acquisì meriti imperituri presso la SpA Genocidi e Infantici. Fu,
credo, nel 1996, cinque anni dopo la prima Guerra del Golfo e sei anni
da quando l’Occidente cristiano, civile, democratico, aveva fatto
strame dei diritti umani imponendo al popolo iracheno la punizione
collettiva dell’uranio, prima, e dell’embargo poi. Le proposi di andare
a vedere cosa stava succedendo in quel paese. Alla mercè del “mostro
sanguinario Saddam” per Lucia c’erano solo i curdi di cui si diceva che
erano stati gassati dal dittatore (poi risultò che furono le truppe
iraniane). Ma c’era anche un popolo che resisteva all’embargo più
feroce mai attuato prima di Gaza, una mortalità infantile decuplicata,
in gran parte per merito dell’uranio sganciato dagli Usa, c’erano i
neonati deformi, c’era una popolazione affidata alla scomparsa per
fame, malattie, acqua tutta inquinata per distruzione degli impianti,
contaminazioni, isolamento dall’universo mondo. Sapete cosa mi intimò
la commessa viaggiatrice di Bush? Testuale: “Vai pure e parlaci
dei datteri, dei monumenti assiri e babilonesi, ma guai a te se mi fai
vedere un solo bambino iracheno menomato dall’uranio, o inscheletrito
dalla fame. Mica voglio fare un favore a quel farabutto di Saddam…”

. Glielo ricordai proprio in una trasmissione di Santoro. Farfugliò
qualcosa su come mi sarei piuttosto dovuto occupare della frana nel
Sarno.

Nessuna sorpresa per come reagì all’oscena piazzata della
bipartisanamente cara signora, strabica nell’ottica e non ce ne
potrebbe fregare di meno, ma molto più strabica più nell’etica, il
verminaio politico e mediatico della marca imperiale. Dal fascista
presidente della Camera, riscattato nell’antica fede dal modello
ultradestro israeliano e dall’olio di ricino potenziato a fosforo, alla
ciurmaglia dell’intendenza a suivre veltroniana. La
quintessenza della deontologia giornalistica l’ha espressa ancora
l’Annunziata quando, a sostegno delle armate nucleari accorse a tappare
la voragine di verità aperta dalle immagini di “Anno Zero”, ha
sentenziato: “Dobbiamo orientare il pensiero degli italiani su questa cosa”. “Orientare”,
capito? E’ l’orientamento cui sono chiamati e votati i nostri operatori
dell’informazione. Orientare come si è orientato il pensiero degli
italiani su una pulizia etnica serba che era solo subita e mai attuata,
su “interventi umanitari” che si risolvono nella decimazione dei
civili, sulle armi di distruzione di massa in Iraq, sulle Torri Gemelle
abbattute da Osama, sull’ “esportazione della democrazia” che comporta
l’annientamento di paesi, popoli, culture, su un libero mercato che ci
fa galoppare verso la fine del mondo, su una “lotta alla mafia” che è
garantita dall’obliterazione di magistrati che ne rivelano l’intima
convivenza-connivenza con la classe politica ed economica, su
operazioni di peace keeping che mirano
esclusivamente a imporre le soluzioni colonialiste e totalitarie
dell’associazione per delinquere, detta comunità “internazionale”, all’
invincibile resistenza di popoli e classi deformata in “terrorismo”.
Tutto questo è un deja vu. Ma poi ci sono, più perniciose dei
rematori di questa nave di licantropi, le quinte colonne del pacifismo
equidistante. Quelle che, contro una manifestazione di massa che si
schiera accanto alle vittime di sessant’anni di ineguagliate atrocità
di Stato, il 17 gennaio in tutta Italia, allestiscono una
contromanifestazione ad Assisi che blatera di pace “contro tutte le violenze”, “contro tutti gli estremismi”.
Quelle che si adontano, proprio da Assisi!, proprio all’ombra di
benedicenti tuniche, dell’unica risorsa rimasta agli esclusi e banditi
dal consesso civile, la preghiera. Quelle che si stracciano le vesti
perché si da fuoco ai simboli di una etnolatria che incenerisce
l’altro, dopo averlo derubato e lagerizzato. Quelle che concedono
pagnotte e aspirine ai sopravvissuti, purchè lascino rimpiazzare
l’occupante genocida da quisling venduti, protettei da caschi ONU o
Nato, che hanno lo stesso compito di spezzare le reni e annichilire la
dignità di chi resiste. “Sinistre cristiane”, fameliche ong, firmaioli
di accorati appelli alla moderazione degli uni e degli altri,
sinistri campioni del cerchiobottismo, predicatori di confronti e
dialogo. Dialogo con una società deumanizzata che al 92% ha appoggiato
la carneficina, famigliole che facevano picnic ai varchi per Gaza,
esplodendo in applausi a ogni botto e a ogni colonna di fumo che
garantivano l’intensificazione della mattanza. Dialogo con una cultura
i cui libri sacri, altrettanti decreti esecutivi, assicurano l’impunità
a ogni nefandezza inflitta al non ebreo. Sì, dialogo, ma una volta che
Israele sia stata ammorbidito dal boicottaggio, dal ritiro degli
investimenti, dall’esecrazione mondiale, dalla fine dell’immigrazione,
dall’irriducibilità della Resistenza.

Una melma maleodorante che
ha per effetto strategico la rimozione di quando, come e perché, tutto
è iniziato: l’esproprio terroristico e bellico di un popolo stanziale
da millenni, una successione ininterrotta di crimini di Stato, tutto
nel quadro di una strategia coloniale secolare per impedire il riscatto
di popoli attraverso eliminazione fisica, frantumazione, pulizia etnica
e corruzione di quanto rimane. Umanitaristi dei cerotti a nascondere le
piaghe, onde la cancrena possa continuare la sua opera fuori da sguardi
importuni. Oh, da quali vertiginose altezze morali precipita sui
dannati della Terra, purchè non “integralisti”, purchè non terroristici
lanciatori di petardi, la caritatevole comprensione della nostra
cristiana civiltà democratica. Purchè “riconoscano Israele”, cioè uno
Stato razzista, escludente, militarista, espansionista, assassino, che
non si è mai sognato di riconoscerne nemmeno l’esistenza. Non andavano
così a consolare gli autoctoni sopravvissuti agli stermini continentali
i nostri missionari? Solo quelli domati, s’intende. Solo quelli che,
anche loro, ci riconoscevano padroni, emissari dell’unico sovrano e
ministri del dio giusto.

Grande sollievo al manifestarsi,
puntuale dopo ogni imbarazzante efferatezza israeliana, della compagnia
di giro dei letterati israeliani sguinzagliati per eludere, con
rimbrotti agli eccessi dei generali di Tsahal e alle “criminali provocazione di Hamas”,
lo spaventoso peccato originale razzista e colonialista e il diritto di
chi si difende attuando la Carta dell’ONU. Vediamo i Grossman, gli Oz,
gli Jehoshua, mistificatori liberal da strapazzo, onorati in ogni
ricettacolo del perbenismo collaborazionista, bofonchiare auspici di
pace e di compromesso. Si sorvola, con disinvolta noncuranza, sui
battimani con cui queste anime belle hanno sostenuto l’invasione del
Libano, l’erezione del muro, l’olocausto di Gaza. Arrivano, con la
stessa programmata puntualità (a conferma di quanto tempo prima
l’attacco a Gaza fosse stato deciso) i film della mistificazione, che
parlino di limoni contesi tra povera palestinese e buona israeliana (“Il giardino dei limoni”), o di “Valzer con Bashir”,
piagnucolosa autocoscienza di reduce israeliano da Sabra e Shatila,
perfidamente intesa a scaricare la colpa dell’orrendo massacro sui soli
falangisti, che invece erano stati addestrati, indirizzati e diretti da
Ariel Sharon. E quando non bastano questi emissari del Mossad dalla
faccia umana, soccorre l’equipollente nostrano. E’ girato nei giorni
dell’orrore sionista un appello del “venerando maestro” di parte
ebraica, Moni Ovadia, cui infelicemente ha dato copaternità il
palestinese Ali Rashid. Quale indiscutibile combinazione di fraternità,
quale luminoso esempio di “dialogo”! Simmetria perfetta: l’invasione di uno degli eserciti più potenti del mondo è alla stessa stregua di un atto pur esecrabile di terrorismo.
E’
dunque grazie alla simmetria di “invasione” e “atto esecrabile di
terrorismo” che crescono l’odio e il rancore, si radicalizzano le
posizioni e le distanze diventano incomunicabilità.
Già, perché
con una Palestina massacrata per sessant’anni e una colonizzazione di
mezzo milione di fanatici ebrei sul 22% residuo di Palestina, ridotto
dal muro a un 12% spezzettato da posti di blocco e strade dell’apartheid,
le posizioni non dovevano certo radicalizzarsi, odio e rancore erano
paranoia pura e la comunicabilità era assidua e affettuosa. Ma se qui
la presenza del palestinese pareva aver messo qualche freno alle
equidistanze del guru ebreo, la maschera cade nell’intervista data a
Guido Caldiron di “Liberazione”. Caldiron, punta di lancia della lobby
ebraica nel quotidiano del PRC, è uno che s’era fatto notare a sinistra
per gli inni di gioia con cui aveva celebrato la reazione delle destre
libanesi alla vittoria di Hezbollah. Sollecitato da domande intrise di
virulenza sionista, Ovadia si esercita nella pratica ossomorica
dell’equilibrio sbilanciato. “La situazione è terribile e disastrosa anche per gli israeliani sottoposti a missili che possono ferire e uccidere ( tre morti contro 1.500)… La difesa (sic) dei
cittadini dello Stato di Israele legittima e sacrosanta… I paesi arabi
hanno accumulato pesanti responsabilità… le mire egemoniche della
Siria… si sta gettando benzina sul fuoco, si rischia di creare le
condizioni per una nuova generazione di terroristi… Quando mai il rogo
di una bandiera è servita a fare qualcosa per un oppresso
(magari sì, già soltanto dandogli il conforto di non essere solo al mondo e, comunque, fornendo un buon esempio)… che un palestinese perda la testa (sic)
è comprensibile, ma che lo faccia uno che vive qui, o un italiano, mi
sembra assolutamente inaccettabile… chi fa simili gesti non pensa
minimamente ai palestinesi: pensa a se stesso, guarda il proprio
ombelico, cerca di farsi notare… io di simili atteggiamenti non ne
posso più, non ne posso più di questo ciarpame (sic)…
Non è Paolo
Mieli, non è Fiamma Nirenstein. E’ Moni Ovadia. Peccato che Ovadia non
guardi il proprio di ombelichi. Forse avvertirebbe un buco nero nel
quale sono scomparsi i torti e le ragioni, gli strumenti criminali
della rimozione di un popolo dalla sua terra, usati in 60 anni di
terrorismo di Stato, e i sacrosanti strumenti di una disperata
resistenza. Poi Caldiron incalza con, in prima pagina, l’intervista
alla “pacifista” israeliana, sfuggita ai razzetti di Hamas, che anche
lei si proclama equidistante: “La loro paura è la nostra”. Immaginatevi il terrore del bracconiere alla vista del fringuello che potrebbe cagargli sulla giacca.

Del
resto tra religiosi ci si intende. All’Ovadia equidistante segue a
ruota, su “Liberazione”, il Tonio Dell’Olio (Pax Christi) specularmente
“equivicino”. Gonfiato di aria fritta il pallone aerostatico con le “innumerevoli iniziative che hanno portato volontari, pellegrini, giovani, a incontri di testimonianza con gli israeliani”, ecco l’esaltazione dell’ “equivicinanza” che ti fa “biasimare
tutti coloro che ricorrono all’uso della forza e che continuano a
credere, contro ogni evidenza, che la violenza possa risolvere problemi
profondi… Bruciare fantocci e bandiere è il segnale preoccupante che la
logica del disprezzo dell’altro ci ha catturati, aggiunge fuoco a
fuoco, odio a odio, è l’ultima delle cose di cui abbiamo bisogno".

Parrebbe dunque che per questi salomoni, impegnati a spaccare in due il
bambino conteso tra madre vera e madre falsa, la cosa peggiore di tutte
sia il rogo di uno straccio imperialista e di un pupazzo di killer in
uniforme. Canagliesco, poi, il richiamo in finale alle vittime della
Cecenia, della Somalia e del Darfur, tutte situazioni care ai
missionari cristiani, care e rimpiante per non essere riusciti ad
impadronirsene, nonostante la grande abilità interventista degli
imperialisti e l’ancor più grande abilità mistificatrice dell’apparato
mediatico e pacifinta. Naturale che, ahimè in sintonia con il
dabbenuomo Paolo Ferrero, segretario del PRC a dispetto della
marmellata poltronara di Svendola, questa gente sostenga come unico
sbocco “realistico” i “due Stati per due popoli”. Uno Stato
militarizzato fino ai denti, sostenuto dalla sedicente comunità
internazionale a costo di qualsiasi obbrobrio (anche perché buon
modello per repressioni interne e spedizioni internazionali future),
accanto a uno “Stato” che non è che un puzzle su cui sia piombato un
masso, senza confini, senza sovranità, senza forze armate confrontabili
con stati sovrani, butterato dalle città del mezzo milione di coloni a
crescere, privato di autonomia economica, politica, culturale. Com’è
che vengono taciute da tutti le voci degli ebrei d’onore e umanità che
si levano contro questa aberrante finzione per gonzi e dimostrano come
l’unica uscita realistica e giusta sia lo Stato unico, democratico,
possibilmente laico, con pieno diritto degli espulsi a tornare nella
loro terra.

Massimo D’Alema è ribalzato sugli scudi
dell’onorabilità a sinistra per aver borbottato due banali ovvietà: che
l’azione israeliana era “sproporzionata” e che con Hamas si deve pur
parlare. Ma che bravo il furbetto di un partitino da sottrarre al
controllo del rivale troppo destrorso, facendo le fusa ai detriti della
sinistra e al papa e occhieggiando verso quella maggioranza di paesi
nel Sud del mondo che danno segni di insofferenza verso l’apocalisse
planetaria perseguita dagli USraeliani, senza soluzione di continuità
da Monroe a Obama! Sarebbe stato più credibile, il baffetto dai mille
fiaschi, se avesse fatto qualche passo indietro sulla Jugoslavia.
Questo è il sergente di ferro e politico di fuffa a stelle e strisce
che ancora si vanta di aver fermato con le sue bombe stragi in Kosovo
inventate per la bisogna, che nulla hai mai detto sui massacri
perpetrati dai gangster narcotrafficanti dell’UCK, addestrati
dall’agente Cia Bin Laden, a danni della minoranza serba in Kosovo. E’
il traffichino che ha sponsorizzato l’Operazione Arcobaleno in Albania,
butterata dalla corruzione e dal ladrocinio e inquisita a Brindisi. E’
il tentacolino imperialista che ha sottoscritto, in piena aggressione
alla Jugoslavia, la mutazione genetica della Nato da alleanza difensiva
a coalizione di aggressori imperialisti in tutto il mondo. E’ il
propedeutico dello Stato di Polizia piduista che ha messo al posto
dell’esercito di leva una forza professionale di sgherri interni ed
esterni e che ha dato ai Carabinieri lo status di Quarta Arma e poteri
senza confronto con le polizie di altri paesi che non siano la Colombia.

Chiudo
con un triste sorriso per quei compagni che si tagliano le palle
politiche e morali frenando sulla solidarietà e sul rispetto per i
combattenti di Hamas, “integralisti religiosi senza progetto politico
accettabile”. Si risentono, le anime ortodosse e delicate, anche dell’
eccessivo indugiare di Santoro sui macabri particolari dei bambini di
Gaza. Li svergogna perfino il Fronte Popolare per la Liberazione della
Palestina che, correttamente, mette da parte ogni differenza ideologica
nel momento dell’unica priorità, la resistenza. Meschino e saccente
eurocentrismo che, questo sì, guarda solo al proprio ombelico. Dicono
che quelli di Hamas, riconosciuti da un popolo sbranato, non sono per
la rinascita araba, ma per l’ umma musulmana. Rieccheggiano
le diffamazioni dei predatori. Ma chi glie lo ha detto? Ci portino i
documenti di Hamas che parlano di califfato e non di liberazione della
Palestina. Nella quale Palestina liberata se la vedranno poi
liberamente ideologie e sistemi sociali e chi avrà più filo più
tesserà. Mi ricordano quel puzzone del PRC che, di fronte all’immane
tragedia irachena e ai successi dei suoi partigiani, scrollò le spalle
e dichiarò con sufficienza: “La resistenza irachena non ci parla””. E
anche così che Bertinotti è arrivato alla terza carica dello Stato.
Sei tu che non la sai ascoltare, coglione!

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Le armi non convenzionali usate dalle forze armate isreliane su Gaza. “Chi sopravvive e’ condannato ad una vita da disabile “

 

Gaza. Parla un medico: Gli israeliani
stanno usando armi non convenzionali

"Non sono in grado di dire se gli israeliani stanno usando armi
al fosforo bianco o all’uranio impoverito, ma stanno sicuramente ‘sperimentando’
sulla popolazione di Gaza nuovi ordigni chiamati Dime
(Dense inerte metal explosive); si tratta di esplosivi di grande e
controllata potenza che causano amputazioni e danni letali per chiunque
venga colpito nel raggio di 10 metri".
Raggiunto dalla Misna a Gaza nell’ospedale di Shifa, il principale
della città , il professor Mads Gilbert, medico norvegese e
membro della organizzazione umanitaria Norwac, parla di persone che
vengono
portate a pezzi in ospedale, letteralmente tagliate in parti, e di
conseguenze di lunga durata sui sopravvissuti. "Su questi strumenti
di guerra non ci sono ancora sufficienti ricerche – aggiunge – sappiamo
però che chi sopravvive ha molte probabilità di contrarre
un tumore ed è comunque destinato ad una vita da disabile".
Le ipotesi di Gilbert, sono formulate sulla base di altre esperienze
di guerra, di quella del Libano in particolare dove, nel 2006, gli
israeliani vennero accusati di utilizzare proprio esplosivo Dime e
fosforo bianco come da loro stessi ammesso in seguito.
"Non abbiamo un laboratorio dove poter analizzare campioni –
aggiunge il medico norvegese – ma parlo a ragion veduta sulla base
dei corpi senza vita e dei feriti che continuano ad affollare questo
ospedale.
Ci sono corpi fatti a pezzi le cui ferite non sono state sicuramente
causate da armi convenzionali, ci sono altri corpi che arrivano completamente
bruciati, con gli organi interni decomposti".
Una tragedia umanitaria, sottolinea Gilbert, che colpisce indiscriminatamente
tutti senza distinzione di sesso, di eta’ , di occupazione: "Gran
parte dei feriti che stiamo trattando ha subito gravi amputazioni;
tutto quello che sta avvenendo a Gaza va contro ogni regola del diritto
internazionale. Sento parlare di guerra ad Hamas, ma i miei occhi
vedono solo bombardamenti sistematici contro la popolazione civile
anche con armi vietate dalla comunita’ internazionale".
(Fonte:Apcom, 7 gennaio 2009)

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LE IMMAGINI PARLANO. GLI IPOCRITI TACCIANO

 

 
 
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Quelli che vogliono ammazzare i testimoni della strage (Pino Cabras – Megachip )

 

13 gennaio 2009

L’incitazione è esplicita: uccidere un gruppo di persone, con nome e
cognome, abitudini e idee, appartenenze politiche e immagini facilmente
identificabili. Chiedono la collaborazione di delatori per completare
le liste con gli indirizzi. La schedatura è esplicitamente rivolta ai
militari, quelli israeliani, se non ci pensano altri killer, per
facilitarli nell’eliminazione fisica di "pericolosi" bersagli: i nemici
da colpire sono gli attivisti occidentali – infermieri e altri
volontari – che lavorano e sono testimoni di quanto succede nei
Territori occupati.

Tutto questo lo potete leggere in un sito web, gestito da un gruppo di estremisti, una sorta di Ku Klux Klan ebraico americano: Stop the ISM.
Può essere di interesse far notare che fra i bersagli c’è anche un
cittadino italiano, Vittorio Arrigoni, di cui abbiamo letto i toccanti reportage da Gaza.
Il tenutario del sito è Lee Kaplan. È uno dei tanti agitatori
fascisteggianti della pancia reazionaria americana, un coagulo che
ultimamente ha preso piede sia nell’ambito dei movimenti cristianisti,
sia nelle frange del fondamentalismo ebraico, ora uniti in un inedito
oltranzismo anti-islamico. In USA la saldatura fra questi ambienti si è
rafforzata, tanto che Kaplan talora ascende anche al salotto buono, si
fa per dire, dei talk show con la bava alla bocca, su Fox News. Ma si
rafforza soprattutto in Terrasanta. I fondamentalisti ebrei controllano
gli insediamenti coloniali più estremisti dei territori (come già si
leggeva in un libro di Israel Shahak e Norton Mezvinsky, Jewish fundamentalism in Israel,
London, Pluto Press, 1999). I fondamentalisti cristiani li appoggiano
per accelerare l’avvento dell’Armageddon, la lotta finale fra il Bene e
il Male, che proprio da quelle parti dovrà svolgersi. Forse per
portarsi un po’ di lavoro avanti, il signor Kaplan lascia briglia
sciolta al sito per sollecitare l’eliminazione di Arrigoni e altri. Non
senza profetizzare che il governo italiano non si preoccuperà più di
tanto se qualcuno provvederà all’auspicata «rimozione permanente» del
nostro connazionale. Lo ripetiamo: questi auspici criminali non
appaiono in un forum semiclandestino, ma in un sito accessibile gestito
da un noto personaggio pubblico.

Ora, dal momento che anche le forze armate israeliane non vogliono
testimoni nello scempio di Gaza, e il nostro mainstream si è subito
docilmente accodato rispettando il divieto, siccome l’unica voce ci
giunge da Arrigoni, in tal caso facciamo due più due e fiutiamo un
grosso pericolo. Abbiamo visto che lì non si va per il sottile, se già
vengono bombardati ospedali, ambulanze, scuole, e se si prende di mira
qualunque soccorso.

Mentre la conta dei morti ammazzati a Gaza si avvicina a quota mille,
accade una cosa singolare. Il cumulo di cadaveri non si può più
nascondere sotto un editoriale di Bernard-Henry Lévy, l’uso di armi
orrende – che un domani vedrete proibire – nemmeno. I giornali nostrani
cominciano timidamente a parlarne. Ma non in prima pagina e in
apertura, come abbiamo fatto già diversi giorni fa su questi schermi,
ma a pagina dieci e in taglio basso. Nascondere non si può. Ma diluire,
questo sì. E questo i nostri grandi organi di informazione lo fanno
benissimo. In attesa di chissà cosa, un successo politico militare, una
chimera, la fine di Hamas. A che prezzo? È in atto la censura più
sottile, ma questa sottigliezza non la salva dall’essere accostata alla
censura più violenta e più minacciosa, quella che vuole colpire chi
vuole salvare il popolo palestinese dalla sua distruzione.

Tanti intellettuali italiani indicano inorriditi il dito insanguinato
del Movimento di Resistenza Islamico (Hamas), ma non vedono la luna
desolata degli altri fondamentalismi che egemonizzano sempre di più la
classe dirigente israeliana. L’idea che le forze armate israeliane
difendano i Lumi contro la barbarie è un ideologismo foriero di
tragedie, dal quale è bene liberarsi con un’operazione onesta di
ricognizione storica e politica della memoria mediorientale. Il
racconto di quel che accade ora è un passo fondamentale, con tutti i
testimoni da rispettare.





:: Article nr. s9072 sent on 13-jan-2008 08:20 ECT

www.uruknet.info?p=s9072

Link: www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=8532

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Fosforo e nuove tecnologie belliche devastanti secondo Human Right Watch “Stanno sperimentando qualcosa” accuse sugli ordigni israeliani

 

006-palestinian-child.jpg
Photo Fady Awan – Gaza City 8 gennaio 2009
PalestineFreeVoice Images

lunedì, 12 gennaio 2009

Prima sono arrivate le fotografie nei blog, immagini terribili di
cadaveri di bambini con il volto annerito o il corpo smembrato, poi le
denunce delle associazioni per i diritti umani e dei medici degli
ospedali di Gaza. Tsahal è accusato di usare bombe al fosforo e "Dime",
armi che provocano il distacco degli arti e, alla lunga, il cancro.

L´utilizzo di bombe al fosforo, secondo testimoni oculari, non è
documentato solo dalle tipiche ustioni che si riscontrano su cadaveri e
feriti, ma anche dalle scie bianche nel cielo sopra la Striscia di
Gaza. Human Rights Watch, pur riconoscendo che il fosforo bianco in
apparenza è utilizzato solo per creare cortine fumogene a protezione
delle truppe, impiego questo «in linea di principio ammissibile secondo
il diritto internazionale», ha detto di avere fotografie che provano le
vittime e i disastri che in realtà queste bombe stanno causando. Tsahal
in risposta ha diffuso un comunicato in cui afferma che «le armi usate
da Israele sono accettate dalle leggi internazionali».

Il sospetto che Tsahal stia sperimentando le "Dime", le bombe che
causano un´esplosione radioattiva di breve raggio, si ha, secondo i
medici norvegesi degli ospedali di Gaza, dal tipo di ferite di alcuni
cadaveri. Le Dime rilasciano infatti microschegge che tranciano tessuti
molli e tendini e i feriti sono destinati a morte sicura poiché le
schegge impercettibili restano nei tessuti, provocando il cancro. Mark
Regev, portavoce del primo ministro israeliano, ha dichiarato ad Al
Jazeera che Israele «usa armi impiegate dalle democrazie dell´Onu». Le
Dime, efficaci in un breve raggio di azione, sono state create
dall´aviazione statunitense per limitare i danni collaterali e non sono
inserite negli elenchi di armi proibite.






:: Article nr. s9081 sent on 13-jan-2008 13:50 ECT

www.uruknet.info?p=s9081

Link: www.dirittiglobali.it/articolo.php?id_news=10179

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