CON CUBA SENZA SE E CON QUALCHE MA NEL 50° DELLA RIVOLUZIONE PIU’ BELLA (di Fulvio Grimaldi)

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Su
questo titolo, sotto la bella foto di Madrid, sicuramente qualcuno
arriccerà o il naso o le sopraciglia, a seconda di disgusto o
perplessità. Ho violato un tabù! Ma come, “con qualche ma” ! Scandaloso
vero? E invece va bene così, sempre se sei un amico vero di Cuba, e non
un suo chierico adorante, e se alla rivoluzione cubana ci tieni come
all’anima tua. Se c’è una cosa che nei lunghi anni della mia
frequentazione di Cuba e della diffusione che vado facendo di voci,
immagini e verità cubane, mi ha profondamente infastidito è
l’adorazione acritica di tutto quanto succede nell’isola, dal belato
della pecora alle dichiarazioni di Fidel. Nel parlare della rivoluzione
giovane di cinquant’anni, ma con qualche ruga, mi preme in primis
prendere le distanze da questa genìa. O quanto bene la conosco! Sono
coloro che hanno in corpo il bisogno infantile di prostrarsi davanti a
un qualche idolo, vitello d’oro o Jehova che sia. A volte, gratta
gratta, sotto i “senza se e senza ma” ci trovi gente che a Cuba si è
fiondata al richiamo di stimoli del tutto extrarivoluzionari,
extrapolitici, e che poi queste istanze delle loro zone basse rivestono
delle pailettes fideliste, guevariane, più che dell’
identificazione con l’arduo, nobile, a volte intralciato (un passo
avanti e due indietro, diceva Lenin), cammino della rivoluzione
socialista. Si sentono riabilitati nella coscienza dalla generosità con
cui Cuba elargisce, comprensibilmente, ospitalità e riconoscimenti. Chi
non lo farebbe nei confronti di sostenitori che, comunque, sventolano
quella bandiera e onorano quella vicenda, mentre si trova serrato al
collo da un’ aggressione imperialista pari per ferocia e durata solo a
quella che lo Stato fuorilegge israeliano infligge al popolo
palestinese? Ai cubani, lo sanno tutti i latinoamericani, non piacciono
molto le critiche. Per un verso ne hanno ben donde, sono stati i primi
e i più bravi. Ma i cubani, intelligenti ed evoluti come sono, sanno
anche molto bene che è amico e chi ruffiano.

Qua sopra, a
proposito, vedete un’immagine dei diecimila che a Madrid hanno sfilato
per il 50° della rivoluzione cubana. Accanto a quella cubana, svetta la
bandiera della Palestina. Non ricordo occasioni, salvo qualche
coraggiosa partecipazione di gruppi locali, in cui le recenti
manifestazioni contro il terrorismo di sterminio israeliano e per la
Palestina libera abbiano registrato la presenza dell’ufficialità
nazionale filocubana. E se da Cuba, dai suoi combattenti per la
liberazione degli africani dal colonialismo e dall’apartheid, dai suoi
insegnanti, medici e istruttori sportivi che in giro per il mondo
estraggono dall’ignoranza e dalla malattia – mens sana in corpore sano !
– interi popoli fin qui esclusi, non si è imparato l’internazionalismo,
la solidarietà con Cuba equivale a quei pacifisti che innalzano
bandiere arcobaleno, ma inorridiscono davanti alla resistenza di
iracheni, afghani, palestinesi, colombiani. E, con riguardo a questi
ultimi, è lecito o no anteporre la rivoluzione perfino a Fidel, quando
il comandante si disimpegna da una lotta in Colombia che, pure,
ripercorre, per dura necessità antifascista ed antimperialista, i passi
dello stesso Fidel, del Che, di Camilo, essendogli stata preclusa con i
massacri ogni altra via alla giustizia? Io, che dedico buona parte
della mio modesto impegno al sostegno di Cuba, posso o no pronunciare
un piccolo “ma” quando sento bertinottescamente dire, sullo sfondo dei
genocidi inflitti dall’imperialismo ai “popoli di troppo”, che la lotta
armata è roba d’altri tempi e che i prigionieri delle FARC “devono essere rilasciati senza condizioni”
, a dispetto e tradimento delle centinaia di patrioti e compagni delle
FARC che agonizzano nelle segrete della tortura colombiane? O quando un
giovanotto, dirigente dell’Organizzazione degli Studenti cubani,
risponde con stereotipe formulette sulla “libertà religiosa” alla
domanda su cosa mai migliaia di cubani vadano cercando nelle chiese
evangeliche, strumento dell’infiltrazione controrivoluzionaria Usa, che
la rivoluzione non gli offre? O quando, alla ricerca di una zappa per
sradicare erbacce infestanti, un esimio economista cerca di dimostrarmi
che era corretto impostare lo sviluppo cubano sui servizi, piuttosto
che sull’industria di base, meccanica, degli utensili? Ma se ogni cosa
deve essere importata e la tua economia dipende quasi per intero dalla
valuta in arrivo con il turismo, che ne potrà mai essere di una
sovranità appesa all’incerta disponibilità di fornitori, perlopiù
nemici? Vogliamo nasconderci l’assurdo percorso di guerra che devono
superare coloro che da fuori propongono progetti di solidarietà, o la
tara della doppia valuta che rischia di riaprire una divisione in
classi favorendo la fauna che prospera attorno al turismo a scapito di
chi lavora e produce. Quando, finito, se il cielo vuole, il criminale
embargo, sull’isola arriveranno le locuste nordamericane e mafiocubane,
quel giro d’affari, non sempre limpidissimo, non minaccerà di produrre
una classe di paperoni e vecchi valori di scambio? E visto che Cuba
straripa di argilla, buona per eccellenti tegole, vogliamo o no
liberarci delle migliaia di tetti d’amianto che seminano nell’isola e
nei polmoni patologie per generazioni? Non è Cuba all’avanguardia, con
decenni di vantaggio, su tutti i paesi della regione e sulla quasi
totalità dei paesi del mondo, quanto a difesa ambientale e progresso
ecologico?

E qui mi scappa un altro “ma”. Se è
vero, come è vero, che gli animali sono i nostri fratelli in Terra più
deboli e migliori, non mi sta bene che per Cuba continuino a sfuggire
alla rivoluzione migliaia di cagnetti che si aggirano abbandonati per
le vie dell’isola ischeletriti, in preda al cimurro e alla lesmaniosi,
in spregio agli appassionati e disperati sforzi di pochi veterinari, o
che si allevino coccodrilli in via di estinzione per estrarne borsette
per cretine da Quinta Strada. Il mio bassotto Nando ne ha parlato più
volte a un comprensivo Fidel, ma poi ci sono le famose “priorità”.
Dipendesse da Fidel… Molte di queste cose e molte altre sono state
espresse direttamente, con formidabile intelligenza rivoluzionaria,
dagli studenti dell’Università dell’Avana i quali hanno ben compreso
che nella lunga marcia della rivoluzione ogni tanto occorre uno
scossone, uno scatto che scuota passi a rischio di autocompiacimento,
di inerzia, di letale burocratizzazione brezhneviana. L’unica cosa che
procede per inerzia è il moto perpetuo. Che però non è stato ancora
inventato.

Ombre che non offuscano le luci che ininterrottamente
da 50 anni dall’isola si spandono sul mondo con la forza di una volontà
e di una verità che è riuscita a intralciare, grazie appunto anche ai
veri amici di Cuba, quelli rivoluzionari, lo tsunami politico e
mediatico della diffamazione, delle menzogne, delle campagne
terroristiche, delle guerre economiche e biologiche. Luci che in
America Latina sono diventate fiamme e hanno incendiato un continente.
Scrive giustamente Maurizio Matteuzzi sul “manifesto”: “Se il 1.
gennaio 1959 la rivoluzione cubana non avesse vinto non ci sarebbe
stato il rinascimento democratico e progressista dell’America Latina…
Se non ci fosse stato “l’antidemocratico” Fidel Castro, oggi non ci
sarebbero i Chavez, i Morales, i Correa , i radicali, ma neanche i
Lula, i Kirchner, i Lugo, i moderati, e forse neppure i Vasquez e
Bachelet, i pallidissimi”.
Aggiungo che senza l’incredibile,
indomabile forza di resistenza delle masse cubane, l’intelligenza dei
quadri dirigenti educati da un’istruzione rivoluzionaria per tutti,
l’indefettibile difesa e diffusione dei diritti umani collettivi,
quelli fondamentali, della conoscenza, della sanità, del lavoro, della
sicurezza e cura di bambini, donne e anziani (con tutti i limiti dovuti
allo strangolamento, all’isolamento geopolitico e anche all’indolenza
caraibica), a quale filo di speranza avrebbero potuto allacciarsi nelle
Americhe i milioni di oppressi, schiacciati, obliterati da cinque
secoli?

Eccoci qua, noialtri, rinserrati in Stati e manipolati
da forze politiche che praticano la virtù massima della macelleria
sociale all’interno e del colonialismo subimperialista verso terre e
genti già predate nei secoli e ora da riconquistare e spopolare col
terrorismo. Eccoci qua, corruttori di menti e sfruttatori di corpi,
rapinatori e devastatori dell’ambiente, ammaestrati da cosche criminali
a cavare qualche detrito di vita e di benessere dal genocidio degli
altri e dal taglio delle gambe ai nostri pari. Eccoci qua che sulla
tessera dei “Giovani Comunisti”, sedicenti tali forse da sempre, fieri
e ottusi mettiamo la foto di chi smantella il muro di Berlino regalando
ai vampiri del capitalismo quel milione di morti ammazzati dal “libero
mercato” nei paesi dell’Est. Mica ci hanno messo il muro lungo il Rio
Bravo contro cui si infrangono le vite di chi dai costruttori di quel
muro ha avuto solo la scelta di morire nella terra da loro
saccheggiata, o fucilato da ronde di tipo padano lungo il confine. Né
ci hanno dipinto quell’altro muro dell’apartheid che punta a
disintegrare definitivamente, chiudendolo in riserve indiane, il popolo
che di quella terra è il legittimo titolare. E neppure qualcuno ha
messo sulla sua tessera di rivoluzionario la muraglia invisibile dei
necrocrati che, vista l’impossibilità di ricostruire il vecchio
lupanare, vorrebbero allargare la loro Guantanamo a tutta Cuba. Cuba, e
poi i suoi succedanei in Venezuela e Bolivia, hanno rotto i rapporti
con lo Stato Canaglia israeliano e hanno invitato il mondo civile a
condannare “i criminali massacri e a mobilitarsi per esigere
l’immediata cessazione degli attacchi contro la popolazione civile
palestinese, rinnovando solidarietà e sostegno indefettibili al
sofferente ed eroico popolo palestinese”
. Qui ci si balocca con codarde e indecenti equidistanze tra chi, prima di farsi eliminare, tira due razzi di latta e il “popolo della Shoah che si difende”. Ci
dividiamo tra le due bande del partito unico che, in ottemperanza agli
interessi della criminalità organizzata, indigena e imperialista,
manifestano il massimo della convergenza delinquenziale nella
complicità con olocausti più estesi nel tempo e più definitivi nella
soluzione di quello che si pretende essere l’unico. E ci permettiamo di
assistere dalla finestra alla gogna di un conduttore televisivo che,
unico nella bolgia dei rinnegati, bugiardi e cospiratori, ha mostrato di che lacrime grondi e di che sangue la “democrazia” israeliana.

Su
Cuba, grazie alla demenziale manomissione inflitta al clima di tutti
dalla cieca voracità di pochi, si abbattono cicloni cui non si può
impedire di stritolare case, campi, fattorie e fabbriche, ma ai quali
la rivoluzione sottrae i sacrifici umani che decimano le popolazioni di
tutti i paesi coinvolti, compresi gli Usa. Da noi frane, alluvioni,
bufere, mareggiate ci lasciano inermi e nudi ai piedi dei fortilizi dei
potenti. Basterebbe l’antimperialismo dei saggi cubani, filo rosso che
attraversa ogni momento di questi 50 anni e che è il più convincente
esempio della possibilità e della necessità della fratellanza umana,
per impegnare ogni essere raziocinante e giusto alla difesa di Cuba e,
come diceva il Che, alla lotta hasta la muerte su tutti i
campi di battaglia del mondo. Qui di Guantanamo ne sopportiamo
serenamente tante che metastizzano le regioni di mezzo paese. Non solo.
Ce ne facciamo utilizzare per riprodurre in giro per il mondo le rapine
e le carneficine che Mussolini faceva da solo o al seguito di Hitler.

Siamo
dovuti andare a Cuba, e poi a Caracas e a La Paz, per farci trarre
dalla nebbia tossica dello scontro di civiltà a base di guerra al
terrorismo, per farci illustrare in modo inoppugnabile quale sia il
terrorismo nel mondo e chi ne sono i promotori e piloti. E grazie a
Cuba – e a pochi isolati “complottisti” in Occidente, esecrati
addirittura dalla sinistra – che si è lacerato il mostruoso inganno del
“terrorismo” diventato, con la speculare frode della “democrazia” e
della “sicurezza”, “l’ascia di guerra per lo scontro di civiltà, la bandiera delle spedizioni di conquista”
e della ricostituzione di una dittatura borghese che, nella morsa della
sua crisi, si propone di diventare la più spietata di tutti i tempi.

Nei giorni scorsi è apparso sui giornali di sinistra un megadocumento intitolato, con involontaria ironia, “Ritorno al futuro”
e firmato da una caterva di illustri detriti dell’”Arcobaleno”, con in
testa la masnada poltronara e di pura fuffa del vendolismo. Se i
padroni vicini e lontani sognavano una rassicurazione strategica,
questo lieve programmino socialdemocratico, che parte, sì, dal basso,
ma dalla bassa politica, glie l’ha garantita. Stato sociale, certo, l’egida dell’ONU per la salvaguardia dell’ambiente e del rapporto produzione-riproduzione della forza lavoro, come no, regole contro gli abusi finanziari, perbacco, interventi pubblici nell’economia, già li fanno Tremonti e Brunetta, l’utilizzo a pieno (da parte di chi?) delle capacità e competenze formate dalla scuola e dall’università, come dice Gelmini, mobilità collettiva e individuale,
come detta Fiat, e bla bla bla. Peccato che questi neoprodiani si siano
dimenticati dell’imballaggio in cui tutti i bei propositi vanno a
essere chiusi: l’imperialismo. Termine non trendy, lo so, ma
credono davvero questi profeti delle compatibilità e della nonviolenza
che si diano rapporti capitale-lavoro non vampireschi, salvaguardie
dell’ambiente, emancipazione dei deboli e delle donne, immigrazione
accettata e onorata, quando si è parte integrante di un meccanismo
planetario di dominio, sfruttamento e distruzione, di deumanizzazione,
come è quello del capitalismo al suo apice imperialista? Molti di
costoro hanno votato per l’assalto a popoli poveri e inermi, nessuno di
loro parla più di Nato e delle basi nella colonia Italia, non ci si
cura del fatto che a tirare le fila dei veltrusconi (fra un po’
chiederò le royalties per il termine) ci sono i burattinai a
stelle e striscie, tutti schizzano la lotta dell’effettivamente
equivoco (ma che c’entra?) Di Pietro contro il rullo compressore
piduista-fascista che frantuma libertà e diritti.

Le luci da
Cuba denudano i re e i loro corifei. La storia vissuta a Cuba è la
prima a darci lezioni per il presente. Grazie a essa possiamo capire il
prezzo, le difficoltà, gli arretramenti e le conquiste di libertà come
ideale concreto, la forza e la fragilità delle utopie, la precarietà
delle fede quando è indiscussa e sterilmente superba, il carattere
insaziabile della libertà. Da essa ci viene la lezione del’irriducibile
resistenza al colonialismo, politico, economico, culturale.

A
Cuba abbiamo dovuto lottare contro due colonizzazioni, quella del
capitalismo e quella del socialismo detto reale. Queste colonizzazioni
richiedono l’esercizio del pensiero critico collettivo. Per favorire
questo pensiero, senza il quale non è possibile rompere con la cultura
del capitale, occorre riformulare il tipo di potere che costruiamo in
tutte le nostre relazioni sociali: il potere tra figli e genitori, il
potere tra maestro e alunno, il potere tra Stato e popolo… Siccome
vogliamo il socialismo, dobbiamo riscoprirlo nell’organizzazione della
produzione, nel lavoro libero e associato, sociale, cooperativo e
autogestito, nella forma in cui il discorso sociale deve essere
inserito nel discorso politico, nella consapevolezza che all’inizio di
tutto sta la sconfitta dell’imperialismo, condizione perché
l’eliminazione dello sfruttamento sia l’eliminazione della povertà, ma
anche dell’alienazione, come voleva il Che Guevara”.
Così
parlarono a Fidel Castro Ariel Dacon, Julio Antonio Fernandez, Julio
César Guanche, Diosnara Ortega, studenti dell’Università dell’Avana.
Gente che ci auguriamo si possa presto vedere al timone della
rivoluzione. Gli anziani, per quanto gloriosi, veterani della
rivoluzione che alle ultime elezioni sono tornati a occupare l’intero
governo cubano, se ne possono fidare.
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